27 dicembre 2007

Alla musa

Tanto ho disertato le tue strade
Da scordarmi il più magico dei riti:
guardare la cimasa del palazzo
che quel giorno, per caso, in pieno autunno
riparò i nostri corpi dal diluvio.
Poi, più sotto, fissare la finestra
dalla quale, per anni, nei miei sogni,
mi hai osservato rincasare sorridendo.

E tanto sto pagando questo fallo
da vivere nei sogni l’incubo più truce
fissare, volto incredulo, il palazzo
e vedere dov’era la finestra,
stampato il tuo sorriso come sponsor
di una marca sconosciuta di profumi.

17 dicembre 2007

...

Ormai è certo che mi anticipi
lungo le strade, sui ponti, tra le gente.
Ma mentre la più parte ti dimentica,
io continuo ammaliato del mio passo
dal tuo odore e dai tuoi simboli.

Il tappo di spumante che galleggia
dopo l’ultima festa nella pozza
al ritmo del volgere degli attimi in minuti.
Il bracciale spezzato che per terra
disegna il cerchio non concluso
dei nostri mesi. E il lampione,
che singhiozza luce gialla a singulti,
batte il tempo del mio incedere.

E tra un suo silenzio e l’altro
quel singhiozzo mi ricorda una certezza:
che non è in metri che si conta
la distanza crescente dei tuoi tacchi.

29 novembre 2007

...

Convinto di scorgerti mi affaccio
Alla finestra invisibile,
che da sopra il frigorifero da a oriente.
Costellazioni sconosciute onorano
il tuo essere sabbia, vento,
il tuo odorare di ginepro, di mandorle,
stelle mai viste incorniciano il tuo viso.
Se non fosse per lo splendido colore
della tua pelle d'ambra
Mi scorderei di vivere, quest’oggi,
mi lascerei cullare,
ma tu sei, esisti, non mi sbaglio.
sono i tuoi passi che camminano in cucina
li sento poco prima di svegliarmi, vedo impressa
sul letto la tua impronta, il tuo nome.
Ma perché esisti, questo resta oscuro.
Forse per essere un'idea?
per il sapore sapido dell’essere
baricentro di un lamento? No,
è certo che è per altro che mi basti
e insieme non mi basti o almeno
così mi vale credere.

Morte di un maldestro

I tasti dell’ordinatore sono gocciole
Che una vasca triste lacrima nel bagno,
il contrappasso dell’inguaribile maldestro
è di non accorgersene,
è di affogare scrivendo di affogare.

23 novembre 2007

(...)

La passante
ha lo sguardo nitido e tagliente,
incorniciato da palpebre ampie
da ciglia flessuose.
Le piccole labbra
sono una firma di sangue
sul suo volto pallido di pelle morbida.
La sua eleganza,
che altri direbbero di zebra o di uragano
schernisce i rumori assordanti della strada
e riempie di silenzio.
È un attimo,
ma basta a ringraziare il poeta, basta
a fissare quegli occhi passare,
leggerne il senso,
capire da quello sguardo di specchio
che non saremo mai più giovani di adesso.

8 ottobre 2007

Ad una amica

Mia cara amica,
insostenibile angelo, non credere
che ti abbia dimenticata: la vita,
che misuro la mattina dai capelli sul cuscino
e dal calore del sangue che mi gela nelle vene,
vale ogni giorno a ricordare la tua forma
oscura ed abbagliante, quel tuo modo
bizzarro di sorridere, quel tuo sguardo
delicato, di vipera
e insieme musa.

26 settembre 2007

L'arrivo

non c'è che il nero
nell'estranea notte di tolosa
ed è col buio che i fantasmi
di mille anni risorgono...
qui s'apre un mondo, comincia una città
che sarà immensa un giorno, un reticolo
di facce e di ricordi,ma che ora
è soltanto una finestra illuminata
davanti alla stazione.
ça va? que cherche tu donc? la vie, peut-etre?
le passanti masticano altre lingue
e sputano per terra frasi d'amore e guerra,
ma più forte dell'angoscia è la certezza
assoluta che anche tu sei qui:
Alea, i viaggi si fanno per cercarti
per scandire i vicoli del mondo
in passi cadenzati sempre uguali...
ed è il sapere la ricerca inestinguibile
che mi spinge pazzo, e scrivere dei versi
è l'unico modo che mi resta per resistere,
non ho altro.

16 settembre 2007

La peggiore delle pene

spesso da bambino
ripetevo all'infinito una parola
per provare la vertigine di ucciderla
farla divenire un suono senza senso.
tanti verbicidi ho accumulato
in quegli anni terribili di noia
da farmi condannare alla peggiore delle pene:
ripetere il tuo nome all'infinito, Alea,
e ogni volta di te perdere qualcosa.
Quando la mia pena sarà estinta

di te solo il nome rimarrà, Alea,
come una dolce melodia onirica al risveglio

12 settembre 2007

III

Incastrata tra le lastre del selciato
e i binari del trentatré
poco distante dalla casa dove abiti
c'è una piccola foto che ti ritrae,
ogni volta che ci passo con la bici
le mie ruote la calpestano,
ogni volta cerco di aggrapparmi
con lo sguardo a quel secondo,
ma ogni volta
perdo l'attimo e tu sfuggi tra le lastre
in un tempo parallelo inarrivabile.

11 settembre 2007

II

Quando ho estratto
dal mazzo delle carte la missione
ho impiegato un secondo lungo un lustro
per capire il vincere impossibile
coincidendo il successo e la tua morte.
Da allora gioco un risiko da stronzi,
rintanato in kamchatka per esistere
ammirando trasognato il viola dei tuoi carri
occupare, piano piano, tutto il mondo.

Trittico marico ad Alea

I

Quando stamane ti ho vista alla stazione

mi è sembrato subito di scorgere
nell'oscillare della tua gonna colorata
le parole che ancora non avevo.
Poi ti ho rivista, alla mezza, nel cafè,
e ho giocato coi tuoi morsi di panino
al sacro gioco del m'ama non m'ama.
Dovevo arrivare al pomergiggio
e incontrarti trafelata sulle scale
per capire dai tuoi passi affaticati
che quello era il momento
e che l'avrei perso. E ora,
il cafè è una muta serranda d'alluminio,
in stazione riposano i barboni
e io aspetto chissà cosa sulle scale
con la testa tra le mani.

4 settembre 2007

Stufo degli occhi fissi per terra…

Sono cresciuto tra mura spesse un centimetro
tra tetti più alti del sole.
E ora guardo il mio cielo
biancochiazzato di nera fuliggine,
e le nuvole che sostano pigre,
ammassate l’una sull’altra
in una soffice orgia di amplessi tonanti,
che per me è un delirio,
e non mi lascia neppure un secondo il deliquio,
la terribile angoscia del soffocamento.

21 agosto 2007

Semplicemente inutile in notti come questa
è il ricordo di te e del tuo sopracciglio
che sempre ha accompagnato le tue risa.
Perché questa notte mi serve buia,
senza sogni o ricordi o deliri
che intralcino le ore o le rallentino
in cristalli colorati.
Mi serve nitida, stanotte, nel suo nero
e limpida, ti prego
di tornare un'altra volta a visitarmi,
ti prometto un sogno straordinario
disegnato per noi due.

18 luglio 2007

Una traduzione da Rimbaud

da Une saison en Enfer


A quatre heures du matin l’été
Le sommeil d’amour dure encore
sous le bocages s’évapore
L’odeur de soir fêté

Là bas, dans leur vaste chantier
Au soleil des Hesperides
Dejà s’agitent – en bras de chemise –
Les charpentiers

Dans leur Désert de mousse, tranquilles,
Il préparent les lambris précieux
Où la ville
Peindra des faux cieux

O, pour ces Ouvriers charmants
Sujets d’un roi de Babilone,
Vénus ! quitte un instant les Amants
Dont l’âme est en couronne

O reine de Bergers,
Porte au travailleurs l’eau-de-vie,
Que leurs forces soient en paix,
En attendant le bain dans le mer à midi

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Alle quattro del mattino il sonno
dell’amore, d’estate, dura ancora,
e svapora dai boschi frondosi
il profumo delle feste serali

negli smisurati cantieri, là in fondo,
alla flebile luce delle esperidi
già si agitano i petti nudi
dei Carpentieri

nel loro deserto di schiuma, pacifici,
preparano gli intonaci preziosi
su cui la città vedrà dipinti
i suoi cieli posticci

Per quegli Operai luccicanti,
Sudditi d’un re babilonese, Oh Venere
lascia un istante i tuoi amanti
Con le anime a corona.

Oh, Regina dei Pastori
ai lavoratori porta l’acquavite
che tramuti in pace le loro fatiche,
aspettando mezzogiorno e un bagno in mare.

11 luglio 2007

Una bocciatura e un sogno

Bello scherzo m’hai tirato, Arsenio
con la tua Valmorbia, terra senza notti…
Ricordi? (Parlavi tra i cumuli di libri
mentre gli ultimi fili di tabacco
scoppiettavano a sussulti) Parlavi
dei monti, di spari taciuti e di volpi, ed io
ascoltavo in silenzio
le tue scialbe memorie di vecchio,
la tua voce argentina cantare…
ma il capo assonnava ad oriente,
già reclinato, la tua voce sognavo,
ma in versi, tanto che a sprazzi
smettevo di esistere (sai cosa intendo
conosci bene l’immobile delirio).
Poi, di colpo, alzato il sipario,
il ridestarsi alla nebbia di sempre,
sparita la valle, spariti i fucili e le grotte
tutto slavato dai sogni. Mi senti?
Ti sento – risposi – ricordo. Ma solo
era un futile schermo
al mio sonno colpevole.

(Che pirla! Se solo
ti avessi ascoltato, se avessi
realmente seguito paziente quei passi,
quei quattro brevi giri di frase,
la storia e i suoi echi persi nel tempo…
non altro serviva, non altro
si chiede a studenti)

Ma adesso mi basta il tuo riso
lo sento forte dall’alto, tra i nembi,
e so che mi senti. E mi basta.

4 luglio 2007

Recherche

Ho cercato alla sorgente di ogni fiume
dove l’acqua è più limpida l’essenza
del tuo sguardo irripetibile del tuo
iride cristallino.

Ho cercato tra i venti puri e alti
la potenza del tuo riso, l’argentino
lento svolgersi melodico
del tuo respiro

Ho cercato nel profumo della pioggia
il tuo splendido aroma di vertigine
l’odor soave, il dolce soliloquio
dei tuoi pori

Ovunque ho cercato qualche segno
qualche simbolo di te, del tuo passaggio,
ma non ho mai trovato nulla,
se non una manciata di versi disperati
scritti con furia in una notte
di una tiepida estate come questa.

29 giugno 2007

Un bambino viziato


E poi mi parli di santi e agiti
le mani per distrarmi,
hai gli occhi di luce come piace
al tuo dio minuscolo, alto un palmo
che da secoli usi per difenderti
e blasfemo, senz'anima mi chiami.
Ma è nei tuoi occhi
nelle tue mani, sui tuoi palmi
che in lettere di cenere è scritto il nome
dei tuoi eroi di sangue dei tuoi
santi martiri.
È in te che langue l’anima vera
quella che la tua voce cerca di descrivere
con parole che non conosce
o con quelle che ha dimenticato.
Ma in fondo è solo che non ricordi
che è quell’amore per la vita che ci fa umani
non quella rabbia fobica per gli altri
che tu meni.
E io ti guardo come si guarda
un bambino viziato.

26 giugno 2007

L'antitesi di un canto

Il fringuello che cinguetta sul ramo del ciliegio non ha colpa,
se il poeta da due cents al rigo lo adatta a simbolo di gioia.
Come può uno scribacchino conoscere a menadito il fringuellese?
Com'è che può capire quello un grido di battaglia, come può
comprendere in quei dolci cinguettii una promessa di vendetta,
la mai più esatta antitesi di un canto?

***

Tutto decade in un clinamen
in un terribile disfarsi.
La muffa è il lamento delle mura.
L'arsura è il grido
della terra soffocata dall'asfalto come un viso
splendido di diva da una maschera
di trucco da pagliaccio.

Furono d'alberi e di fiumi
i suoi luoghi dell'infanzia,
pianure pullulanti di briganti, forse
ma non di fumi di carbonio o di polveri sottili.
Sono i loghi, ora,
che pullulano nel gas della pianura.
Lungo quelli che furono sentieri,
percorsi di storie, di leggende,
ora scorrono nuovi miti,
sempre più veloci, ma miti
che non parlano e procedono per schianti,
e lamenti e grida. Generazioni ci vorranno
per slavare l'incubo
e così iniziare un nuovo sogno.

20 giugno 2007

A Edgar Poe

Basta guardare la bottiglia,
mezza vuota (o mezza piena che dir si voglia)
il capo reclinato in una smorfia
e il filo di bavetta che firma
una lettera scomparsa
per capire che i suoi sogni
sono sempre popolati da serpenti.

19 giugno 2007

La stagione dei tuoi sogni

In fin dei conti dura poco il male,
la botta si riassorbe in fretta
e non lascia traccia
al mattino è scomparsa e la pelle è pronta
per quella nuova, che intanto aspetta...

Gli anni, o meglio, la stagione dei tuoi sogni
dura appena qualche attimo
nell’immenso
calderone atomico
che in mancanza di termini migliori
è chiamato: l’Universo

15 giugno 2007

De te fabula narratur

Il primo ad aprire la busta fu il dottor Farrugia, neolaureato in Lettere all’Università Statale di Milano e stagista presso gli uffici della redazione culturale del Sole24h. L’aprì in uno strappo secco, ma non ebbe il coraggio di leggerne il contenuto. Indugiò soltanto per qualche secondo sulla calligrafia minuta ma armoniosa del mittente, ALLA CORTESE ATTENZIONE DI STEFANO SALIS. Decise di portarla subito al destinatario, il suo capo.
Camminando a passo svelto verso l’ufficio guardava alternativamente a terra e all’aria. Gettò uno sguardo malcelato alle forme strabilianti della segretaria del capo, bussò alla porta e entrò.
Il dottor Salis era seduto al suo posto, sotto la finestra, sgranocchiando i resti di una cena modesta preparata a casa, con gli occhi e con la mente in un altro punto del mondo, tra le palme caraibiche del suo desktop. Sfogliando l’incartamento della busta si scrollava distrattamente le briciole di dosso.


Egregio dott. Salis,
Voglio darle un’informazione, e nel farlo sarò breve; riguarda Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. So che lei lo ha letto qualche sera fa so anche che si è addormentato a pagina 45, ma soprattutto so che nei suoi sogni, che suo malgrado la mattina dopo aveva dimenticato, si trovava, in nuce, un riflesso della verità che io ora le offro.
Melissa P non esiste, o meglio, non è la ragazzina spregiudicata e sessuomane che tutti pensano sia. Di più, Melissa P è un pseudonimo dietro il quale si nasconde un ombra ingombrante. Spero che al suo ingegno, che reputo alto, bastino queste parole:
STAT ROSA PRISTINA NOMINE, NOMINA SOLA TENEMUS.
addio.


Il dott. Salis Inizialmente pensò ad uno scherzo, alzò un sopracciglio al suo modo e guardò il dottor Farrugia, È uno scherzo, vero?. La risposta negativa, implicita nello sguardo sperso dello stagista, non poteva certo convincerlo. In fondo neppure era una domanda quella che gli aveva rivolto, era soltanto un riflesso incondizionato, la mai sopita abitudine di pensare ad alta voce.
Il dott. Salis aveva naturalmente capito al volo l’allusione del misterioso mittente e non perse tempo. Era venerdì, mancavano poche ore all’impaginazione definitiva della Domenica. Scrisse il pezzo in due colonne. Cercò nell’archivio una foto abbinabile al pezzo. Chiamò l’impaginatore e il titolista. Infine soddisfatto se ne andò a casa, aspettando l’esito delle sue parole. Solamente davanti all’uscio di casa pensò che forse non era stato troppo prudente.
La domenica la passò a casa, con un nodo allo stomaco facilmente spiegabile, temeva, anzi peggio, aspettava che il telefonino iniziasse a vibrare, che la voce del suo avvocato lo informasse di una denuncia per diffamazione giunta alla redazione.
Aspettò fremente tutto il giorno. Rimase sveglio fino a mezzanotte passata, ma nulla successe, il telefonino vibrò solo all’arrivo di un messaggio di recall, erano quasi le tre.
La mattina dopo arrivò in redazione presto, ma non per primo. Quando aprì la porta del suo ufficio si trovò davanti, legati e imbavagliati, il dottor Farrugia e la bellissima segretaria. Comprese che qualcosa stava accadendo solo quando sentì dietro di sé chiudersi la porta e girare la chiave nella toppa, ma non fece in tempo neppure a voltarsi.


Sono tutti e tre imbavagliati, il ragazzo, una ragazza molto bella e un uomo sui quaranta. Stanno per terra. Il ragazzo ha sonno, gli cade la testa di lato. La ragazza è svenuta, è per terra.
È un uomo robusto dalle spalle larghe, il rapitore , non sembra giovane


Dottor Salis, mi deve delle spiegazioni, o sbaglio? Allora mi spieghi, su, mi dica chi ha fatto la soffiata. Il dottor Salis, imbavagliato, ha appena iniziato a boffonchiare qualche brano di frase inavvertibile, quando squilla il telefono, interrompendolo. È la polizia, messa in allarme dal lavavetri dell’edificio, che appoialato fuori dalla finestra ha assistito alla scena del rapimento e ha dato l’allarme.
Il rapitore si dirige al telefono, parla in francese, Je suis un combatant du front popular d’Algerie, Je’ai rapitò le docteur Salìs, son secrétaire e son assistant. Pourtez-moi un elicopterò, altremont je tagl a tout la goule à mort.
Il dottor Farrugia, che di origine è francese, è l’unico che può comprendere le parole del rapitore e si spaventa non poco. La segretaria, che in qualche modo deve aver capito la questione dal tono incattivito della sua voce, appena ridestatasi risviene.
Nelle ore seguenti la scena si replica altre cinque, altre sei volte. Ogni volta il tono della voce, la lingua e l’accento del rapitore cambiano radicalmente. Dal siculomafioso all’indipendentbasco, passando dal gaelico e da un arabo finissimo.
Sia nel piccolo ufficio gli ostaggi legati, sia giù in strada la polizia, nella persona del commissario Cupardo, si sono decisamente insospettiti. I primi, il dottor Salis e il dottor Farrugia, non sanno proprio che pensare. Il secondo, il commissario Cupardo, puranche.
Arrivano le due di notte e le grida e i canti traballanti della Milano alcolica da bere, un paio di vomitate fregiano le ruote posteriori della macchina del commissario che nel frattempo fa l’ennesimo tentativo telefonico, forse l’ultimo dei tentativi per capirci qualcosa.
Il rumore del venerdì sera, le grida e i canti rendono incomprensibili le parole urlate dal commissario nell’apparecchio, sembra di assistere ad un controcampo di una di quelle conversazioni che in un bel film di spionaggio non si devono carpire, se si voglia godere della suspence insita nel genere. Solo qualche parola filtra dal rumore… pare latino!
La telefonata è finita, il volto del commissario è sudato, pensoso, come chi abbia risolto un enigma o si ad un passo dal farlo. Sta pensando a Franco Brioschi, un suo professore dei tempi dell’università a cui era stato molto legato, e che diceva sempre che "A parlare un latino fluido in Italia non sono rimasti che il Papa e Umberto Eco".
Il papa è in viaggio d’affari in Turchia, anche un idiota capirebbe.
Ora il lento fluire delle lacrime di sudore dalla fronte del commissario è inversamente proporzionale alla velocità dei suoi pensieri. Quante cose gli vengono in mente! E tutte nello stesso istante, il tutto non appena il suo sguardo casca sull’articolo della Domenica del Sole, SCANDALO NEL MONDO LETTERARIO, MELISSA P È UNO PSEUDONIMO DI UMBERTO ECO, la firma è di Stefano Salis.



È ormai profonda la notte, e buia, il telefono squilla nel silenzio dell’ufficio. La segretaria è ancora svenuta, il dottor Salis e il dottor Farrugia si sono stufati da tempo di lamentarsi e, non sapendo più a cosa pensare, vorrebbero solo che tutto al più presto finisse.
Anche il professor Eco è stufo di giocare, ma anche lui è confuso, è stato troppo maldestro ed è stato scoperto. Non avrebbe dovuto usare il latino, lo sapeva, ha esagerato, l’ispettore ha capito, ha capito tutto. Lo scandalo che voleva insabbiare, il suo essere padre dei gemiti, delle perversioni di Melissa P e di tutte le altre porcate radicalpop non potrà più essere negato. Tutta una vita per diventare Umberto Eco e ora in mano un pugno di mosche.
Ad un tratto il fax, l’ermes moderno che trilla, sderedegna e stampa il terribile messaggio: due fogli di A4 in times, corpo 12, neanche troppo fitti. Umberto Eco le legge d'un fiato, le ultime parole sono DE TE FABULA NARRATUR, di te si parla nella storia…


E il corpo di Umberto Eco cade, anticipandone l’ombra, come corpo morto, senza neppure capire perché. E dell’ufficio, delle curve della bella segretaria, del commissario Cupardo e della Milano alcoolica da bere non rimane altro che un pugno di caratteri da scordare.

14 giugno 2007

Il salto nel vuoto

Giovanni e Sonia stanno facendo l’amore, hanno quasi trentanni e da dieci sono insieme. Ci sono stati amori migliori tra di loro, ma non si possono lamentare. Il problema inizialmente è tutto di Giovanni, sta pensando ad un'altra, inutile dire che la questione in un secondo dalla mente è passata ai fatti di lui, ai gesti. Si è immobilizzato, è sbiancato in viso. Cosa succede? Sonia si preoccupa, capisce al volo che qualcosa non va. Cos’hai amore? La mummia di Giovanni non sa rispondere, è nell’attimo di smarrimento. Ho pensato ad un’altra… le risponde con un filo di farfuglio. Ho pensato ad un’altra… ribadisce. La faccia di lei non si potrebbe descriverla, sarebbe storia da tenere privata, basti dire che, strabuzzati gli occhi e abbandonata la mascella, una riga di un misto di sudore e lacrime le attraversa lo zigomo. È finita, dice Sonia trattendo l’urlo, Non si può… e scoppia in lacrime, questa volta pùre. Giovanni nota la lacrima e la asciuga, Non so che dirti Sonia, che dirti a scusa?, ma lo dice già prendendo la rincorsa verso la finestra spalancata sulla strada.

11 giugno 2007

La notizia che il mondo esiste

Dalle agenzie è battuta la notizia
che il mondo esite è cosa certa dice
uno studio americano d’eccellenza.
E la gente corre in strada nelle piazze in festa
scambia abbracci
per baci e il contrario
Esistiamo! Finalmente è certo! Ma nessuno
si avvede di quell’ombra

che dalla malchiusa finestra osserva

E prende nota,
e sorride,
e scrive.

una bolla di catarro

Quando eravamo piccoli
(i piccoli figli dell’italia – ricordi –
ci dicevano) insieme giocavamo alla guerra delle ghiande.
Ricordo che un giorno,
pur avendo un raffreddore,
rifiutasti
sdegnoso Il fazzoletto di cotone che ti porsi
e tirasti su col naso una bolla di catarro.
Da allora

le nostre strade si divisero e divennero
euclidee rette parallele
(io impiegato, tu ministro delle lettere)
ma quella bolla di catarro
ancor oggi nel tuo cervello si dimena.

Un'ilarotragedia

Attenzione! – s’ode l’urlo dal megafono –
Qui passa l’esercito imperiale!
Qui passano gli eroi!
Ma nulla è quel che sembra ed io fanciullo,
li vedo come sono
: dei re nudi
ornati di pantofole e marmitte
di pentole e mattarelli di cartone.
Ed io non posso non ridere di loro
non posso non correre lontano a sganasciarmi.
Ma una volta finita la risata
è un’ilarotragedia
perche tutti muti li guardate
con quel vostro solito sguardo candido
di finta ammirazione.

23 maggio 2007

15 dicembre 1982

a Milano,
il 15 dicembre '82,
qualcuno dice che piovesse,
altri che una neve d'ovatta ricoprisse le strade,
altri poi che quel giorno
non si vide che sole,
io, nato già distratto, già maldestro,
semplicemente non ricordo.

21 maggio 2007

Sui Barbari di Baricco

Trovo che "I Barbari" di Alessandro Baricco sia un libro disonesto, un’occasione persa, per il lettore, s'intende. Prima di tutto perché il lettore non è affatto l'interlocutore privilegiato a cui l’autore si rivolge. Dietro la pubblicazione de I Barbari, prima a puntate su “la Repubblica”, poi stampato dalla Fandango, non sembra esserci affatto un interesse comunicativo, se non fittizio, perchè Baricco del suo baudeleriano son semblable non si interessa affatto, l’hypocrite lecteur non è mai stato così lontano dall'essere son frére. Mi rendo conto, è chiaro, sia che della pesantezza dell’accusa, sia che il gioco si fa molto delicato quando al centro del campo c’è Alessandro Baricco; è per questo che cercherò nelle righe che seguiranno di fornire delle solide argomentazioni.
Prima di tutto è l’argomento a sembrarmi illegittimo, Baricco, infatti, cavalca a spron battutto un cavallo imbizzarrito, la "fine di un'epoca", una voce che riecheggia da tempo, l’arrivo dei barbari.
La presunta invasione barbarica è una percezione collettiva realmente diffusa, ma tutt'altro che reale, è bensì costruita nella nostra immaginazione e nella nostra percezione dall'industria sociale, culturale e politica, e continuamente alimentata (a regola d’arte non c’è che dire) attraverso il sapiente utilizzo dei mezzi di informazione. Di questi tempi non sta iniziando nessuna epoca barbarica, la barbarie è tra noi da un bel pezzo, almeno dall'avvento della società dei consumi, dell'industrializzazione culturale; l’epoca della riproducibilità tecnica e industriale dell’arte è iniziata da quasi un secolo. Che poi questa rivoluzione culturale si sia in questi anni inasprita, accelerata, che stia percorrendo curve logaritmiche di crescita può essere vero, credo che lo sia, ma sostenere che l’invasione sia firmata Google, e più in generale dalle nuove tecnologie digitali, è una mistificazione. Quello che stiamo vivendo in questi anni non è che l’inevitabile evoluzione del mondo neocapitalistico avanzato, mondo che di certo non nasce oggi, e neppure con l’invenzione di Google, ma piuttosto con con la trasformazione del pubblico in massa, con la formazione delle grandi concentrazioni economico-editoriali, almeno per quanto riguarda il mondo culturale e letterario, che è il nostro villaggio e quello di Baricco. Queste nuove tecnologie, le branchie di Google, lungi dall’essere il grosso dell’esercito barbaro, ancor di meno ne sono l’avanguardia. Anzi, c’è il rischio che siano proprio questi nuovi mezzi di comunicazione, questi nuovi supporti, la chiave per uscire da questa degenerazione dell’arte, da questa palude puzzolente, ma questo è un discorso che porta lontano, realmente, e che prima o poi bisognerà affrontare seriamente.
Nel 1960 Franco Fortini in un saggio intitolato Verifica dei poteri diceva: I luoghi dell’opinione e del gusto letterario sono stati sorpresi nel giro di pochi anni dall’insorgere ed estendersi di forme per noi nuove di industria della cultura che hanno mutato aspetto e funzione ai tradizionali organi di mediazione fra scrittori e pubblico, come l’editoria, le librerie, i giornali, le riviste, i gruppi politici e d’opinione. Ripeto la data: 1960. Baricco nel 2006 prova a spiegare lo stesso fenomeno, quasi cinquantanni dopo, dichiarandone l’urgenza e l’attualità. Nello stesso tempo, però, Baricco, che fa parte del mondo barbaro che descrive, mimetizzando sotto il velo di una pretesa ingenuità un gran sorrisone, finge di voler cercare di capire, il che, oltre ad essere disonesto, è pazzesco se si pensa che probabilmente egli ne è la manifestazione a livello letterario, fino ad oggi, in Italia, più brillante e riuscita. Ed emerge evidente dal suo stile e dall’accento della sua voce, da quel suo fare ammicante la cui migliore descrizione è, paradossalmente, nelle sue stesse parole. Quando descrive il vino hollywoodiano, esemplificazione del tipicamente barbaro, tratteggia una vera e propria metafora del suo scrivere:

“Ecco alcune delle sue caratteristiche: colore bellissimo, gradazione abbastanza spinta, gusto rotondo, molto semplice, senza spigoli; al primo sorso c’è già tutto; dà una sensazione di ricchezza immediata, di pienezza di gusto e profumo; quando l’hai bevuto la scia dura poco, gli effetti si spengono; interferisce poco con il cibo, ed è pienamente apprezzabile anche solo risvegliando le papille gustative con qualche stupido snack da bar; è fatto con uve che si possono coltivare ovunque.”

Fuori di metafora il discorso mi sembra veramente aderente a quello che è l’autore Baricco, il suo stile, la sua inconfondibile voce.
Il discorso di Baricco è mal calibrato, porta il lettore a farsi un’idea distorta di quello che gli sta realmente accadendo intorno. Perché se è sicuramente utile l’innescarsi di un serio dibattito sulla trasformazione del mondo che ci circonda, sul ruolo che in questa trasformazione hanno le innovazioni tecnologiche, sulla potenziale velocizzazione della diffusione dei saperi, sul cambiamento del significato di letterarietà, è inutile e disonesto, nel farlo, puntare su temi fuorvianti, che non portano da nessuna parte o dalla parte sbagliata, vicoli ciechi, deviazioni inutili.
È ora di smetterla di perdere tempo in queste scaramuccie di retroguardia, è ora di affrontare i temi veramente fondamentali in grado di rivoluzionare sul serio il mondo editoriale e culturale, temi sui quali si gioca il futuro della nostra traballante cultura italiana e che si affacciano, questi sì per la prima volta, sul campo da gioco, per restare nel nostro villaggio, dell’editoria e della letteratura: il tema della condivisione libera dei saperi resa possibile dalle nuove tecnologie, la battaglia contro l’assurdo statuto attuale del copyright, diventato ormai uno dei maggiori impedimenti alla diffusione delle conoscenze, la battaglia per una informazione non viziata dagli interessi economici, quella contro l’aziendalizzazione e la precarizzazione del mondo culturale (dai giornali, alle case editrici, fin anche alle università), la battaglia per una alfabetizzazione culturale finalmente reale, per una diffusione effettiva delle potenzialità tecnologiche, per un funzionamento meritocratico della società culturale italiana, dell’università in primis. Queste però, e bisogna dirlo, prenderne atto (e fare qualcosa), sono piuttosto le nostre battaglie, non quelle di Baricco, che oltre tutto nel frattempo si rende protagonista di azioni di disturbo. Prima fra tutti il duello con Giulio Ferroni svoltosi questa estate sulle pagine dello stesso quotidiano che ha pubblicato I Barbari, grazie al quale Baricco, proprio mentre in pagine limitrofe cercava di capire come essi combattevano e come si muovevano, ha dato una colossale e barbara spallata al mondo della critica letteraria, scardinandolo definitivamente (forse finalmente?), dimostrandone la ormai esclusiva funzione pubblicitaria e mostrando come l’asservimento del critico agli interessi della classe dominante, non sia più soltanto esplicito, ma anche subdolamente implicito alla pratica critica.
Chioso e concludo (e ammicco al Conte): il mio attacco acceso a Baricco non è mosso da rancore personale o da un odio inveterato e pregiudiziale, da letterato, contro chi vende tanto, lo dico sinceramente, è piuttosto mosso dall’insofferenza, spero comune a molti della mia generazione e non solo, nel vedere coloro che avrebbero la possibilità mediatica di smuovere la mentalità collettiva dalla ritrosia e dalla cecità nella quale versa (non solo nel piccolo e relativamente poco importante campo della letteratura), continuare a reiterare formule e discorsi di comodo, inutili e vuoti, sprecare ogni volta l’occasione di dimostrarsi intelligenti.

Il Cinquetre

A questo secol morto, al quale incombe
tanta nebbia di tedio.
POEMA GOLIARDICO, 1820


L’alba è passata da poco, il sole dovrebbe essere già sorto sull’asfalto bagnato, graffiato dai tentacoli umidi dei camion dell’AMSA. Ma oggi su tutto la greve caligine di novembre grava, domina incontrastata la città. La strada è deserta, o così pare, ed è muta, attutito ogni rumore, tutto è inghiottito dal marbianco. Soltanto le due cifre tremolanti dell’autobus Cinquetrè sberluccicano, rosse di neon, rifratte casualmente dalle incontabili goccioline della nebbia, mentre l’autobus è fermo. È un’immobile balena stravolta, stordita sull’arena.
In quell’oceano, bianco da accecare, arriva tagliando la coltre burrosa, con la calma assonata delle notti insonni, il primo pendolare, imbaccucato in lana pesante, il passo tardo e lento non aggiunge rumore al silenzio. Sepolto da tutto quel biancore tenta di scacciare la paura di sparire inghiottito dalla bruma, così bianca da stordire. Vorrebbe tentare di intaccare, di tagliare con lo sguardo le pareti di quel muro inconsistente ma inscalfibile. Bah, forse per pigrizia, forse per mancanza di spirito d’azione, desiste ancor prima di provare. L’abbraccio posticcio della nebbia gli ha placato ogni fretta certamente, congelato ogni ardore.
Poco dopo arriva il secondo, abbracciato alla terza, marito e moglie aggrappati l’un l’altra, si difendono come possono dall’umido dei nembi, dal gelo nelle ossa, e lo fanno barcollando, tra un dormiveglia e un sogno di calura, un bisogno irrinunciabile di afa e di vacanze.
E la luce avanza, anche se ancora non si può chiamare giorno, ma a saperla descrivere ad avere le parole, sarebbe bianca da accecare, balenante, scomposta e ricomposta dalla nebbia in timidi fulgori. Di certo comunque si può dire essere già molto diversa dal bagliore impacciato di pochi istanti prima. È il giorno nuovo che si approssima, che timorosamente impara a camminare, come sempre.
Intanto arriva il quarto, un giovane impiegato, stazza misera, canuto, incomincia a borbottare, insolente non pazienta, neppure per un attimo, reclama, protesta del ritardo, ordisce lagnele fastidiose, cerca un sostegno tra i presenti con lo sguardo. Gli occhi assopiti intorno a lui lo fissano stizziti, nel suo dannarsi l’anima al lamento, ma quello, impertinente, continua le lagnanze. Ma ancora non attacca, il sonno non fa sconti, almeno per un pò.
Passano i minuti come secoli monotoni e monocromi, un contromedioevo bianco, fulgente di foschia. Il Cinquetrè non accenna a partire, non un movimento, nessuno scoppiettio né un rumore dal grande ventre grigio del motore, nessuno può esser certo nemmeno che esista il guidatore, anche se qualcuno giurerebbe di averne sentito dietro ai vetri il ronfare aritmico e nervoso.
E arrivano anche gli altri da tutta la pianura, pendolari fradici e già stracchi da affondarsi nel letto ancor prima di iniziare a lavorare. E con loro, nella nebbia ancora bassa e fitta da tagliarsi, inizia a diffondersi un rumore, prima flebile, un vocìo, poi i borbottii si fanno più massicci, non si intendono le parole. Poi si unifica in brusio, cumulo di voci sottovoce, che s’infiltrano dovunque come un liquido, come la nebbia che le avvolge. Sono i pendolari, s’iniziano a svegliare, protestano tutti insieme: più passa il tempo più prendono coraggio, senza dubbio, e iniziano a gridare le offese più maligne, disumane, a quel povero diavolo d’autista. Invero il suo volto è ignoto a quella folla, visto che è celato dal bianco lenzuolo della bruma, mentre all’insaputa di gran parte dei presenti, stravaccato sul sedile, dorme di gran gusto come un gatto.
Ma basta qualche attimo, il brusio diventa grido ed è bomba a mano: sfascia, stravolge e sconvolge il silenzio umido. Un altro attimo, ed ecco un vocione che si staglia dal magma multiforme delle urla, nel marbianco della nebbia:
<>
Grida ansando, grufolando. Ma è solo la miccia, altre sono le molteplici esplosioni. E infatti ecco un’altra voce che s’inerpica e fende la nebbia, quasi rotta, stonata dalla rabbia:

Un altro dei presenti lo imita, ma rincara la dose, esplode una bestemmia rabbiosa e articolata, sputata a denti stretti:

E poi altri che picchiano sui vetri:
<>
Intanto, d’improvviso, un secondo dopo l’altro la nebbia arretra, lentamente ma inesorabilmente. E tornano a vedersi dei colori, prima soffocati dalla nebbia. Il Cinquetrè smette i panni della balena esanime, ritorna autobus. La strada di nuovo torna strada, le case tornan case, per ultimi, infine, sono i volti a tornare volti.
Pian piano, tra i presenti si diffonde un senso di liberazione, nell’attimo di pace le espressioni con fatica si associano alle voci, gli improperi ai padroni, le bestemmie agli artefici. Quand’ecco che iniziano a spannarsi i vetri del veicolo, senza fretta, a chiazze che si allargano e riprendono centimetri all’opaco, la nitidezza si fa avanti, in un minuto è in ogni parte.
Finalmente si vede la faccia dell’autista, del dormiente, un sorriso da pubblicità di dentifiricio gli alberga in viso, ma gli occhi son di fuoco, si è svegliato, tutti quegli insulti l’han ferito, unica sua colpa l’essersi sopito, cullato dal candore. Lui, unico lavoratore in atto tra petulanti lavoratori in potenza, in quel momento, chissà che gli passa nel cervello, scende dall’autobus, tiene fissi quegli occhi diabolici, gl’iridi impazziti, le pupille come spilli, migliaia di piccole venuzze gli irrorano la sclera. E giù con balzo da pantera, piegando le ginocchia leggermente s’inarcha sulla schiena. Tutti i presenti timorosi, allargano un cerchio di paura, nel centro spaccato, in mezzo a quelle bocche spalancate, emette un urlo luponario. Quindi serra gli occhi, e ghignando bestialmente, il braccio inizia a roteare, roteare, continua a roteare e infine schiude il pugno. Il povero mazzo di chiavi, sospinto da una forza sovrumana, sale oltre le nubi.
E salgono, salgono sempre più in alto, brilleggiano di luce, scintillano in mille baleni da sorprendersi. Salgono, salgono, sembra quasi all’infinito, ormai sono un minuscolo puntino. Salgono, salgono, fino all’apice del lancio, chissà quanto in alto. Quindi si fermano, si godono la brezza, scintillano ancora più forte e si riempiono d’altezza, del senso di vertigine. Quindi cominciano a cadere, a rovinare, precipitando sempre più veloci.
Dal punto di vista delle chiavi diciamo che si vedrebbe una chiazza, una piccola macchia giù da basso che pian piano si espande, diventa folla, gente che a bocca aperta aspetta ancora loro, le chiavi. Si vedrebbero anche i visi che deformano, irriconoscibili, devastati da livori incomprensibili, che si sguardano in cagnesco, che sbavano, e che intanto si fanno sempre più grandi più vicini, talmente veloci da renderli impossibili. Poi GLOMM GLUNP GLORT …di colpo tutto si fa nero, silente. È il nero del silenzio, in realtà leggermente borbottante, dello stomaco d’autista che le ha inghiottite per dispetto e per l’astio dei presenti. A veder la cosa dall’esterno non possiamo sapere se là dentro, in quelle viscere, risuonano i colpi, le grida della folla attuttite dalla carne, e gli strappi, e gli sputi, e gli schiaffi, e le urla di dolore dell’autista, lancinanti, linciato dalla folla, l’ultimo dei martiri alienati, di un mondo che non ha più senso, un mondo che li costringe a uccidersi tra loro.

Un ultimo standard di jazz

La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo,
certi crepuscoli e certi luoghi vogliono dirci qualcosa, o dissero
qualcosa che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa;
quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico.

j. l. b.

Il vecchio professore è affacciato al balcone dove ha sempre vissuto. guarda la strada, naturalmente, invasa e scaldata da un tiepido tramonto di primavera inoltrata. Sa che questa è l’ultima volta che può sporgersi dal quel balcone, l’ultima volta che può vedere i palazzi di vetro, in fondo alla via, farsi rossi, infiammati.
Due mesi sono trascorsi dall’ordine di demolizione e di conseguente evacuazione del palazzo. Le cariche di esplosivo sono già state accatastate intorno alle colonne di cemento armato che da sempre reggono quelle mura. Il vecchio però, ancora non sa che fare. Si trova inequivocabilmente ad un bivio, uno snodo decisivo della sua vita. Il vecchio, però, ancora non ha deciso che fare. Il suo cuore vacilla tra le uniche due scelte che la sua mente contempla. La prima è una scelta complessa, perché ne porta dietro tante altre: è andarsene, accettare il cambiamento e affrontarlo, continuando a fare altre scelte, continuando a vivere. La seconda, invece, si conclude in se stessa, nel suo inesorabile compiersi ed è per questo, in qualche modo, più semplice: è aspettare, crollare col palazzo, implodere con lui nell’oblio. Quale sia tra le due la più drammatica, la più dolorosa agli occhi di un uomo con buona parte della vita alle spalle, non è semplice a decidersi e forse neppure ci riguarda. Ci basta sapere che questo è senz’altro uno dei momenti più intensi della sua vita. Proprio questo, che ci sta passando sotto gli occhi, tra le righe, è il momento in cui deciderà, sceglierà se morire o continuare a vivere in un mondo che lo ha superato e che lo ritiene superfluo.
Il vecchio guarda ancora verso i palazzi, ora un po’ meno infuocati, di un rosso più cupo, più straziante e continua a pensare. Forse pensa a quanto sia strano che questo tramonto, questa semplice e reiterata figura dell’eterno e infinito ritorno, contribuisca inequivocabilmente alla sua tristezza e, nello stesso tempo, con la stessa fermezza, alla sua tranquillità, a quella sicurezza, alla costruzione di quella consapevolezza della propria fine che è forse il vero scopo della vita di un uomo. Mentre le associazioni di immagini, pensieri e parole gli si ammucchiano rapidamente nella mente, sempre più fitti riaffiorano antichi e meno antichi ricordi che come lenti barconi risalgono a fatica le rapide correnti del tempo. Alcuni di questi ricordi sono legati alla casa, fedele compagna di strada da una vita e da lei traggono forza, materializzandosi.
Guardando la libreria in sala, per esempio, colma dei libri che hanno animato i suoi sogni di studente e che lo hanno esaltato, abbattuto, e alla fine cresciuto, gli viene in mente quando era bambino e passava i pomeriggi a giocare a calcio sotto quella libreria, quando ancora non sapeva leggere, quando per lui quell’ammasso di libri, pane della sua immaginazione futura, era solo un muro irregolare su cui far rimbalzare la palla di spugna, quando ancora non immaginava che dentro quei piccoli scrigni esistessero altri mondi, altre vite.
La libreria è sempre stata il centro nevralgico della casa, come la letteratura della sua vita. Da quelle assi di legno possente, metafora fin troppo facile di quel sapere per lui così necessario, è partito il vecchio, quando vecchio non era, a scoprire il mondo ed i suoi ingranaggi. È lì, tra quei libri, che ha imparato i rudimenti del mestiere di vivere ed ora, dovendo abbandonare tutti quei personaggi, quei compagni di vita, si sente sopraffatto dalla solitudine. È per questo che ora si sente così lontano dal suo mondo, dai vecchi amici, vivi solo nel suo ricordo, dalle amanti avvizzite nella carne come nella memoria, da un mondo che è polvere, ormai.
Ora, guardando giù, lungo la strada, è come se li vedesse marciare tutti quei personaggi, quei volti sbiaditi ed è come se li vedesse tutti insieme per l’ultima volta, mentre anche loro si dirigono al tramonto, verso il sole infuocato che ora è ancora più vicino al lontano orizzonte. Mentre li guarda andarsene, per la prima volta nella sua vita, prega. Prega che per nessuno di quei personaggi, di quei volti di amico, di quelle donne sia arrivato il tempo della fine, la fine vera intendo, che altri chiamano oblio. Prega di non essere, per nessuno di loro, l’ultima tappa del tempo, l’ultimo a serbarne il ricordo, prima della necessaria estinzione dalla memoria, perché se così fosse anche solo per una di quelle facce, il peso della morte diverrebbe per lui insopportabile.
Nel frattempo però il tempo procede, mentre questi pensieri e ricordi assediano il vecchio e il sole è sparito, dietro la casa all’angolo. Di riflesso egli si ritrova a pensare che sia tornato ad infiammare altre case, altre strade, altri vecchi e, inevitabilmente, che sta scaldando per l’ultima volta la sua di casa, se non forse anche lui, che intanto s’infiamma pensando e viaggiando nel tempo.
La casa infatti trabocca di foto sui muri, alcune grandi come poster, altre piccole come francobolli, appiccicate un po’ ovunque provano a resistere al tempo, come se una faccia giovane in una foto ingiallita, visibilmente vecchia possa allietare la vita di chi quella faccia è stato, di chi in quell’immagine per un momento ha vissuto.
Le foto del quartiere, poi, parlano ancora più tristi del passato lontano, foto di palazzi che sono stati e non sono più, che hanno già concluso il loro ciclo vitale, palazzi che si sono già portati dietro i loro padroni all’oblio. Il vecchio, che ancora non sa cosa fare, guarda e riguarda gli stessi angoli, gli stessi oggetti, continua a pensare a quella decisione, come se qualcosa potesse ancora cambiare nella sua vita. La vista di quelle vecchie foto lo ha riportato per l’ennesima volta a ripensare al futuro, all’esplosione imminente. Si guarda intorno, vede l’esplosivo intorno alla colonna dell’anticamera, proprio sotto il giradischi, e lo immagina esattamente nel momento prima dell’esplosione, nell’appartamento nudo e spoglio, quando un gran silenzio, rotto al massimo dal rumore dei tarli, regnerà nell’intero palazzo e nella via. Silenzio che precede il rumore più forte e per questo ancora più gravido di potenza e di significato. E immagina di essere lì, sdraiato sul pavimento fresco a guardare gli scaffali e il giradischi e ad aspettare il gran finale, mentre nelle orecchie risuona a memoria un ultimo standard di jazz.

Una macchia da pulire sul selciato

Sei sdraiato supino nel torpore del letto, avvolto nelle morbide spire del tuo caldo piumone. Non ti sei ancora svegliato, o meglio, non del tutto, non ancora, i tuoi sensi si destano lentamente, strappandoti con discrezione ad un sonno di sogni magnifici, o di incubi crudeli. In casa non c’è nessuno, nessun rumore disturba il tuo lento rinvenire al giorno, lento rinascere alla vita di sempre. Soltanto un bucolico cinguettio urbano, per la verità un po’ stonato, arriva in qualche modo alle tue orecchie. In fondo, pensi, così è proprio un bello svegliarsi. All’improvviso un aroma penetrante di caffè nero bollente ti riporta, ancora sotto le coperte, con gli occhi serrati, ai tempi della scuola, quando ti iniziavi a quel rito mattutino, così fondamentale, ora, nella tua vita di uomo. Ed è proprio quel profumo che, mentre in qualche modo ti riscaglia nel dormiveglia dei ricordi, contemporaneamente te ne tira fuori. Ormai devi proprio alzarti, è ora. E sono gli occhi gli ultimi ad aprirsi a quel mondo, che ti assedia con i suoi odori, i suoi rumori. Questi, come se volessero recuperare lo svantaggio accumulato sugli altri sensi in questi pochi secondi di sonnolosa veglia, rapidamente si muovono dal soffitto, per verificare che nulla sia mutato durante la notte, alla finestra, a sbirciare la luce, spinti da una tanto misteriosa quanto radicata curiosità meteorologica basata, poco scientificamente, sull’intensità luminosa dei forellini della tapparella.
A rovinare questo splendido risveglio basterebbe qualche nuvola nei punti chiave del cielo, ma per oggi così non è, il cielo è terso d’azzurro smorto, l’ideale per un giretto al parco.
Fai per aprire la porta, un gesto banale, un automatismo come nella vita ce ne sono tanti, talmente tanti che ormai non ci fai più caso, ma questa volta qualcosa non va, qualcosa manca, la tua mano stringe il vuoto e dove c’era una maniglia non c’è che porta, bianca e liscia come il marmo, senza traccia di alcuna manomissione. Per prima cosa ti salta in mente la risposta più banale, sto sognando, tutto questo non è vero, mi sveglierò sudato ma sarà tutto come prima, nel caldo. Un pensiero che di certo ti tranquillizzerebbe, se non fosse che, ovviamente, così non accade. Non ti svegli affatto, semplicemente perché non è un incubo quello da cui ti vorresti svegliare, è soltanto la realtà, e forse neanche una delle più terribili.
D’istinto corri al telefono, mentre una vampata ti accende le viscere e un sudore acido inizia a bagnarti le ascelle, la schiena, le mani. Il telefono è muto, inerme, così come il tuo cellulare, senza campo. Il computer è un ammasso di sabbia e plastica, privo della scossa elettrica che come un cartiglio sotto la lingua l’aveva sempre animato, esso ora non è nulla.
Ora corri alla finestra, la spalanchi. L’aria fredda ti travolge e un po’ ti calma, ti da respiro. Ti riempi voracemente i polmoni di questo gelo e urli, più forte che puoi, ma nessuno ti sente, o meglio, probabilmente molti ti sentono ma a nessuno importa quello che ti sta succedendo. Se credevi di poter esistere ai loro occhi anche solo per un secondo, ora hai imparato una cosa nuova, prova a ricordartela e ti mancherà un tassello in meno degli infiniti tasselli che compongono il mondo che ti circonda.
Ora non puoi far altro che girarti e chiudere la finestra, ma prima fermati e osserva ciò che si suppone tu abbia ormai imparato a chiamare realtà. Ora che sei fermo, guarda fuori, oltre i vecchi vetri sporchi della grande finestra. Guarda il cielo grigio di una metropoli che potrebbe anche non avere nome talmente è grande e talmente è identica a tutte le altre. Prova a sentirne l’odore, quel tranquillo odore di decadenza, forse riuscirai a coglierne addirittura le sfumature di marcio, sintomo certo di un disfacimento irrimediabile e vicino. Segui con lo sguardo la gente indaffarata che cammina fianco a fianco per le strade, sola come lo sei tu, ma a differenza tua ancora libera, almeno per un po’. Dall’alto sembrano piccoli insetti che ondeggiano. Ti soffermi su quelle crape che ballonzolano e pensi che anche tu sei stato loro, praticamente ogni giorno della tua vita.
Ora la vampata si è trasformata in brivido, stai quasi crollando ma non sei ancora disperato, sono sicuro che l’angoscia non ti ancora invaso, ora sei soltanto triste, in un modo profondo, difficile da capire. Su, siediti sul divano, quel divano logoro, consumato da sere e sere passate tra un libro e la televisione. Certamente penserai a tutto quello che non hai visto, agli amici che non hai conosciuto, alle donne che non hai amato, poi butterai la faccia sui palmi sudati e andrà a finire che un paio di lacrime si mischieranno a quel sudore acido.
Adesso si che sei disperato, ora si che hai capito che nulla ha più senso, che ogni minuto in più in quello stato è agonia, che nessuno potrà mai più sentire la tua voce, ridere con te, che il tuo sguardo non incontrerà mai più lo sguardo dolce, o amaro, di una donna. Chissà se sei riuscito a capire che in fondo tra il nulla della città in cui vivi da sempre e il nulla infinito della morte poco cambierà e che ormai tanto vale toccare l’apice del terrore, perché è anche di queste cose che, alla fine, si vive.
Passi così qualche minuto, tra il panico e la follia. Poi ti passa per la mente che se ti mettessi a scrivere questa storia, l’essere narratore in qualche modo ti potrebbe salvare da quella assurda situazione, lo scrivere di te stesso potrebbe, in un certo senso, relegare quell’esperienza ad una pagina scritta, ad una finzione e, a storia finita, potresti alzarti e continuare a vivere la tua vita. È chiaro e palese che questa non è che l’ultima fantasia di un pazzo, l’ultimo tentativo di un condannato e te ne sei già accorto, questa è la prova di cui avevi bisogno. È questo il momento in cui un pensiero, che già in precedenza ti aveva sfiorato, si ripropone con impeto, decisivamente. Ogni minuto in più in questo stato è agonia.
Decidi di finirla, di compiere quell’unico gesto rimasto a quel tuo misero libero arbitrio. Apri di nuovo la finestra, questa volta l’aria fredda e puzzolente ti fa venire un conato di vomito, ma la velocità con la quale essa ti si fa incontro aumenta esponenzialmente, il terreno si fa sempre più vicino, la puzza sparisce. All’inizio il fiato ti si blocca in gola e una stretta atroce ti stritola lo stomaco. In qualche istante, però, ti ci abitui terribilmente e cominci ad urlare. Ma le tue non sono più grida di aiuto, sono terrore, terrore puro per l’appressarsi della fine, sempre più veloce.
Ora ti resta solamente un attimo di consapevolezza, dopo il quale sarai soltanto una macchia da pulire sul selciato. Se il tempo fosse nelle tue mani e nelle tue possibilità fosse di fermarlo, quasi certamente arriveresti a capire di non essere altro che una delle infinite combinazioni che può assumere una manciata di caratteri, gettata su un foglio di carta che naturalmente, oltre a sopravviverti, ti ha.

Il temporale

Il temporale è passato presto,
il vento l’ha spazzato
a sbuffate, da sopra la città.
Il cielo tersazzurro è pezzato
da qualche nuvola in ritardo sulla marcia
che forse è figura di chi scrive,
in ritardo sulla vita, o forse…
ma non c’è motivo di capire
perché non c’è nessun motivo.
Intanto si assiepano nere le nuvole a sud,
ci accerchiano e stringono,
se ne sentono le urla e il fragore lontano.
Il temporale è passato, presto
tornerà.


Al parco

Aspetto il vento che mi farà capire
quello che solo muoverà le foglie ai rumori
nell’unica delle loro combinazioni
che dà senso al mondo.
forse è solo un’attesa,
un’attesa vana, forse
solo il pretesto
per riempire fogli da altri già scritti
giusto ad usare, finalmente,
quella penna ad inchiostro simpatico
che un giorno mi desti.

Castelli di sabbia

Costruiamo castelli di sabbia,
dicevi, e non lo dimentico,
ma castelli di sabbia che crollano,
dovevi dire.
Rupi maleodoranti e nere di pece
ma precarie come inutili vezzi,
vecchi e paludosi imbrogli,
che anche vestiti a festa,
restano schifezze, pastiglie avariate,
muraglie che solo hanno in cima
filo spinato elettrificato
e una scritta slavata illegibile.

La mia prigione

Stanchezza,
solo questa mi è rimasta
come compagna,
un’immensa vertigine,
una annoiata abitudine alla resa
ed è per questo, forse, che mi lacera
dentro mi macera e mi lascia nel vuoto
di un'invisibile prigione.

Invernale

Una pisciata su un manto di neve
accecante, non è cosa da poco,
è emozionante ascoltare del piscio
l’intrufolarsi nel gelo,
lo sfrigolare misto all’infrangersi
del fiotto caldo
che in un solo unico istante spacca
il muro di silenzio altrimenti d’ovatta.
L’abbandonarsi,
calate le palpebre all’estasi,
alla pace (una pace
interiore, compatta, fulgente
come la neve) è vertigine.

A Milano, in odore di mattino

Dal mio balcone lontano dal centro
osservo Milano invecchiare,
di minuto in minuto mi nutro
di miasmi, di sbuffi mortiferi
di smog, di ricchezza, di noia.
È l’odore del mattino e l’alba avanza,
da affilato rosso bagliore a calore,
puro calore e giallo, continua,
centimetro somma a centimetro,
si fa bianca, di un caldo candore
e mentre la guardo, esausto,
mi aspetto dal giorno
almeno una porca figura.

Le parole

Al giorno d’oggi
le parole pastose sui fogli
sono il catrame incrostato agli scogli
di un mare fetente.
Un mare che sputa
una bianca schiuma e che sciupa
le attonite facce di anziani,
naufraghi assorti,
mentre quello guardano,
da un triste cortile d’ospizio:
sempre la stessa acqua,
la stessa bianca schiuma che li guarda passare.

Noi che ignoriamo la qualità dei tempi

Strano - le dissi – non trovi sia strano
che un nano mongolo dirimpetto ci guardi?
(o forse guarda oltre, l’estatico orizzonte?)
…forse… e se fosse cieco? - mi disse…


Noi che ignoriamo la qualità dei tempi
d’istinto rivolgiamo agli altri le colpe:
ma è in noi che la vita si spegne,
è in noi che il pianto agisce,
quando stretto si fa alla luce l’iride
e finalmente capiamo
l’altrimenti vano significato della parola nulla.

Cinicon

Di corpi straziati,
le strade deserte ricolme,
di vinti che uccidono i vinti, di mosche,
di tasche bucate.
Di ponti, di piazze distrutte per niente.
Macerie, soltanto macerie
e uomini ridotti a sciacalli, avvoltoi.
Alcuni,
avvinghiandosi a terra in un turbine,
si contendono l’aria.
È un altro massacro.

Meno male che basta qualche stupido tasto
una
cinica combinatoria di minimi gesti
per tornare nel solito niente,
e scrivere versi azzopati.

In un bar

La gente farnetica piano
parole di strani sapori,
poi urla dai denti più forte
si mastica i verbi, i nomi, gli avverbi
aggettivi banali, comuni.
Sono tutte parole gergali,
ma succose e gustose, da ghignare contenti.
Ma poi escono di tasca i coltelli
e le parole finiscono, solo
un vuoto, una vertigine, un lamento
poi rapidi s’odono i passi,
e incedono, avanzano all’ombra.
Poi nulla.

I sogni dei gatti

È l’una di notte e se la svigna
un gatto a riveder l’oriente, in cima
ai suoi sogni di tigre.

Suona la campana della chiesa, come al solito,
a sproposito, mentre leggo.
Leggo per provare a vivere in una biblioteca
e leggere tutti i libri che valgono la pena d’esser letti
(e che non sono poi tanti come credono tutti)
leggo che qualcuno è stato Borges, che altri
sono stati Dante, Baudelaire e Shakespeare
poi scopro che Dio ancora non è stato nessuno
e un po’ mi insospettisco…
ma poi capisco di averlo sempre saputo,
che siamo dèi intendo, non sogni di gatti…

Il marciapiede

Il marciapiede è un non luogo
ha detto qualcuno che non ricordo,
ma non si può dire che sia non affollato,
ora, sotto il magnifico stellato
delle luminarie di natale.
Montagne di non oggetti, di non cose
aspettano soltanto che i clienti, non persone,
le paghino e le adorino
come non idoli, come non dei.
Ma questo è il secol nostro e ora
la gente adora questo genere di cose,
le apprezza per il loro non esistere,
forse per convicersi di esserne diversi.

I nomi delle stelle

Eravamo giovani e parlavamo
dei nomi delle stelle
per ore fluivano le parole,
con i soli tuoi occhi a testimoni
e con loro i baci, per ore.
Mi chiedo, a tanti anni da allora,
ora che le parole sono esposte
in teche trasparenti
e disposte per ordine e per specie,
ora che l’albero che ci spiava
nel giardino è caduto,
quali siano le nuove, magiche
combinazioni di parole
che gli occhi a quel modo ancora ti fanno.

La chiusura del circo


È arrivata ancora una volta
l’ora tarda, la chiusura del circo,
nani, leoni, acrobati, pagliacci
affollano lo spiazzo insieme agli altri
è tutto un grufolare, uno spasimo
tra ebbrezza e ritrovata libertà.


La chiusura del circo

È arrivata ancora una volta
l’ora tarda, la chiusura del circo,
nani, leoni, acrobati, pagliacci
affollano lo spiazzo insieme agli altri
è tutto un grufolare, uno spasimo
tra ebbrezza e ritrovata libertà.

Quid

Una folle previsione d’impazzire,
che già è follia,
ci travolge sibilando, schiamazzando,
riducendo le parole ad un rumore.
È strano,
pensavamo di arrivare oltre la luna,
di cambiare le regole del gioco
e invece ogni giorno ci svegliamo più storditi,
non capendo o fingendo di capire.
Ora, nello scempio di stracciare la parvenza
e nell’illudere il tempo,
restiamo incollati a rancidi livori,
in logori divani e immensi,
ammuffiti, come noi, dall’inedia.

Nel muoversi e contorcersi dell'aria

In lontananza,
nel muoversi e contorcersi dell’aria
si scorgono, finalmente i confini
bollenti, oleosi dell’impero.
Giorni e giorni di camminate allo sfinimento,
di incubi neri di fatica,
ma finalmente ci siamo.

Il nemici

La strada ritornerà polverosa,
quando il nemico arriverà alla porta.
Batterà con insistenza col calcio
di un fucile ancora sporco di fango.
Ti chiederà se ricordi di lui,
urlando,
e se anche tu sei stanco
di questa assurdità,
di tutto questo chiasso.

Elegia trifasica del pagliaccio

Rintoccano i rintocchi del mattino,
quando vuota è la giostra a luci spente e
scrocchiano in cocci aguzzi le bottiglie.

La lacrima del pagliaccio precipita,
spatascerà tra un attimo per terra,
nel mentre però è immobile, nell’aria.

Neanche troppo lontano da lì
il bambino che ore prima rideva,
ora sogna di essere un pagliaccio,
e di essere il padrone di quel pianto.

Il monito di Wernher von Braun

Crollano anche le sacre torri bianche
e cedono i confini dell’impero.
Noi ostiniamo a non crederci,
a fingere di ridere ed amare,
a sembrare felici coltivando
la speranza di credere ancora
alle magnifiche sorti e progressive.

Incubo ricorrente di un uomo triste

La nebbia ricopre perfin gli stipiti,
le macchie umide sui muri stinti,
e intanto sgocciola
il rubinetto malchiuso del tempo.

Notturno con tempesta


Fuori si sente il battito del tempo
che picchia, e la finestra, smossa
e sferzata dal vento, sbatte incessante
segnali ineccepibili di resa.

Ahi serva Italia, di dolore ostello

Ahi serva Italia, di dolore ostello
furia genitrice d’occasioni perse
e d’inutili pazzi.
Incominci a puzzare
come un cranio di cane
esposto da tempo al tempo.
Ahi, tracotante, italica fogna,
al putrido olezzo tanto legata,
all’arrivar dell’ultima occasione
ricordati bene di quell’odore.

23 aprile 2007

Il sistema periodico di Primo Levi

Il 12 ottobre 1974, in uno studio parigino, risuonava il ticchettio metallico della macchina da scrivere di Italo Calvino, sulla carta quei suoni creavano non solo l’ulteriore testimonianza di un profondo rapporto d’amicizia intellettuale tra il mittente, Italo Calvino, e il destinatario della missiva, Primo Levi, ma iniziavano a creare anche l’embrione del giudizio critico che ebbe successivamente il libro. Esattamente un anno dopo veniva dato alle stampe Il sistema periodico. Sulla copertina, la cascata perpetua di Escher era l’indizio del principio unificatore della raccolta, il paradossale e infinito cammino della materia, dipanato poi compiutamente nell’ultimo e nel più bello dei racconti che la compongono: Carbonio. Quella lettera ovviamente non nasceva dal caso, Calvino e Levi molto avevano in comune. Oltre all’essere due delle personalità più interessanti della letteratura del novecento italiano, condividevano la profondità e l’estremo rigore concettuale, nonché l’attitudine alla speculazione scientifica. Uno fu un chimico e l’altro un letterato ma ebbero entrambi lo stesso, profondissimo interesse per la materia, per il mondo e per la sua comprensione. Il fatto che per Primo Levi questa comprensione sia partita dagli atomi e per Italo Calvino dalle parole è trascurabile. Le loro strade, iniziate separate, si incrociarono col passare del tempo nel territorio della narrativa. L’ispirazione scientifica della raccolta è resa già evidente fin dal titolo ed è confermata dalla struttura: ventuno brevi prose ciascuna intitolata ad un elemento della tavola periodica e ad esso collegata, ventuno prose che ripercorrono la vita del chimico e dell’uomo, dai banchi della gioventù universitaria negli anni del fascismo, attraverso la dura esperienza della guerra e della deportazione (argomento per questa volta solo accennato, ma mai, come è ovvio che sia, messo da parte), alla rinascita nella difficile Italia del dopoguerra. Ma le storie che Levi racconta non si fermano all’autobiografia, la oltrepassano, la superano, perché Levi, narrandole, non perde l’occasione di dimostrare la sua straordinaria capacità di scavare in profondità nel mondo in cui vive, mostrando quell’atteggiamento verso il mondo e la materia che chiamare positivista sarebbe sbagliato, ma che da lì, dalla scienza e dalla ragione, prende le mosse. Tutto ciò attraverso una prosa efficace, mai esagerata, aderente e precisa, perché un’altra delle capacità di Primo Levi l’alchimista è quella di saper maneggiare le parole come fossero atomi e particelle, unite tra loro da legami necessari, profondi e mai inutili.

21 marzo 2007

L'ultima notte della città di Uncsar

Lo conobbi una sera d’estate, col vento di zeffiro che spirava caldo, dal mare. Era seduto, alla sua maniera, al bancone di un piccolo baretto, in una piccola isola perduta mediterraneo. Non saprei dire quanti anni avesse, la barba, bianchissima e folta, ne avrebbe fatto un centenario, ma i suoi occhi, di un azzurro limpido, sembravano quelli di un ragazzo, intensi e diretti verso il mondo.
Mi raccontò delle storie, non saprei dire se le inventò in quel momento o se facevano parte di quel bagaglio, a volte pesante da trasportare, che ognuno di noi accumula nel breve sogno della sua vita. In ogni caso quelle storie sembravano vivere una effettiva realtà attraverso le parole misurate e precise che la voce suadente del vecchio declamava.
Mi raccontò di una dimora fantastica,a pochi chilometri dalla luna, circondata da altissime mura nere come la pece o blu come l’eterno, non ricordo bene, tempestate di luci stellari ; mi parlò di deserti dove il corpo si perde ma l’anima, quella no, continua a vivere e s’innalza ai livelli massimi della consapevolezza fino a vedere l’ombra degli dei festanti.
Mi raccontò delle sanguinose ed interminabili battaglie titaniche e di dei, stanchi e vecchi che, ebbri di vino, piegarono i monti e squarciarono le pianure alla vana ricerca del senso di quella loro labirintica creazione.
Parlò per ore e le sue parole sembravano ora lampi, nella notte dell’ignoranza, ora goccie di pioggia, che lavano la superbia e mondano l’anima, e le parole si univano in frasi, definitive, dipingendo mondi alteri e incomprensibili per la mia mente. Come i lampi formano l’essenza delle tempeste, le sue frasi si univano ramificandosi in storie terrificanti e sublimi, dolcissime e meravigliose, come quando mi parlò della caduta di Uncsar, ultima dimora degli dei.
Era notte di festa nelle strade di Uncsar, e la sua popolazione immortale festeggiava il ciclo dell’universo, il culmine dell’espansione e il ritorno al tutto.
L’energia festante si materializzava in bolle di fuoco e di fiamme che salivano agli astri come freccie brucianti e uno strano intruglio etilico scorreva copioso nei calici traboccanti degli dei festanti.
I profeti lo avevano predetto, millenni prima, e gli scienziati lo confermarono : sarebbe stata l’ultima sera di Uncsar. All’alba del giorno dopo, qualcuno o qualcosa (questo nessuno poteva saperlo) avrebbe spazzato via per sempre la città immortale ed i suoi abitanti. Tutti erano stati messi al corrente, tutti sapevano, e festeggiavano. Si festeggiava la fine di un’epoca, la fine di tutti loro, ma, contemporaneamente, si festeggiava quello che dopo quel giorno sarebbe continuato, mutando, perché come tutti sapevano bene nella città di Uncsar, quando qualcosa finisce c’è sempre qualcosa che ricomincia dalle sue ceneri. Come una fenice la città di Uncsar correva verso il suo destino, festeggiando.
Era appena calato il sole, per l’ultima volta, su Uncsar, ultima città immortale, e tutti erano in strada, a festeggiare. La festa durò per tutti gli infiniti momenti che separano ogni tramonto dall’alba successiva, fu una festa infinità degna degli dei. Ma quando l’infinita serie dei secondi giunse all’inizio dell’infinita serie successiva, qualcosa cambiò repentinamente. In un tempo incalcolabilmente minimo, anzi in un tempo inesistente tutto mutò, e mentre qualcosa cessava di esistere qualcosa nacque ed iniziò a crescere. Le mura nere o blu di Uncsar caddero sotto il peso del destino per diventare cielo, le case di terra rossa indurita dall’eternità si disgregarono per ricomporsi infinite volte a creare i mondi, e le bolle di fuoco e di fiamme si sparsero per l’universo per accendere le stelle. I volti dei popoli che si chiamavano Dei scomparvero e nessuno li vide mai più, le loro urla, di gioia o di terrore si diffusero a creare i suoni e il loro movimento avrebbe creato i venti che soffiano incessanti per tutto l’universo. Questo fu l’ultimo degli infiniti attimi di Uncsar. Quindi il vecchio prese a descrivere l’istante in cui il tutto, disgregato e multiforme, cambiò, ma usò parole strane e incomprensibili il cui suono terrorizza e non può essere pronunciato e le cui lettere sono affreschi meravigliosi e non possono essere scritte, i suoi occhi si accesero, le mani spinsero l’aria in alto, infine il suo ghigno, non lo scorderò mai, illuminò il mare di una luce irreale, che mai prima di allora avevo visto. Non mi è possibile ripetere le cose che egli disse in quei lunghi istanti, esse sono esprimibili solo attraverso parole inumane, divine.