29 giugno 2007

Un bambino viziato


E poi mi parli di santi e agiti
le mani per distrarmi,
hai gli occhi di luce come piace
al tuo dio minuscolo, alto un palmo
che da secoli usi per difenderti
e blasfemo, senz'anima mi chiami.
Ma è nei tuoi occhi
nelle tue mani, sui tuoi palmi
che in lettere di cenere è scritto il nome
dei tuoi eroi di sangue dei tuoi
santi martiri.
È in te che langue l’anima vera
quella che la tua voce cerca di descrivere
con parole che non conosce
o con quelle che ha dimenticato.
Ma in fondo è solo che non ricordi
che è quell’amore per la vita che ci fa umani
non quella rabbia fobica per gli altri
che tu meni.
E io ti guardo come si guarda
un bambino viziato.

26 giugno 2007

L'antitesi di un canto

Il fringuello che cinguetta sul ramo del ciliegio non ha colpa,
se il poeta da due cents al rigo lo adatta a simbolo di gioia.
Come può uno scribacchino conoscere a menadito il fringuellese?
Com'è che può capire quello un grido di battaglia, come può
comprendere in quei dolci cinguettii una promessa di vendetta,
la mai più esatta antitesi di un canto?

***

Tutto decade in un clinamen
in un terribile disfarsi.
La muffa è il lamento delle mura.
L'arsura è il grido
della terra soffocata dall'asfalto come un viso
splendido di diva da una maschera
di trucco da pagliaccio.

Furono d'alberi e di fiumi
i suoi luoghi dell'infanzia,
pianure pullulanti di briganti, forse
ma non di fumi di carbonio o di polveri sottili.
Sono i loghi, ora,
che pullulano nel gas della pianura.
Lungo quelli che furono sentieri,
percorsi di storie, di leggende,
ora scorrono nuovi miti,
sempre più veloci, ma miti
che non parlano e procedono per schianti,
e lamenti e grida. Generazioni ci vorranno
per slavare l'incubo
e così iniziare un nuovo sogno.

20 giugno 2007

A Edgar Poe

Basta guardare la bottiglia,
mezza vuota (o mezza piena che dir si voglia)
il capo reclinato in una smorfia
e il filo di bavetta che firma
una lettera scomparsa
per capire che i suoi sogni
sono sempre popolati da serpenti.

19 giugno 2007

La stagione dei tuoi sogni

In fin dei conti dura poco il male,
la botta si riassorbe in fretta
e non lascia traccia
al mattino è scomparsa e la pelle è pronta
per quella nuova, che intanto aspetta...

Gli anni, o meglio, la stagione dei tuoi sogni
dura appena qualche attimo
nell’immenso
calderone atomico
che in mancanza di termini migliori
è chiamato: l’Universo

15 giugno 2007

De te fabula narratur

Il primo ad aprire la busta fu il dottor Farrugia, neolaureato in Lettere all’Università Statale di Milano e stagista presso gli uffici della redazione culturale del Sole24h. L’aprì in uno strappo secco, ma non ebbe il coraggio di leggerne il contenuto. Indugiò soltanto per qualche secondo sulla calligrafia minuta ma armoniosa del mittente, ALLA CORTESE ATTENZIONE DI STEFANO SALIS. Decise di portarla subito al destinatario, il suo capo.
Camminando a passo svelto verso l’ufficio guardava alternativamente a terra e all’aria. Gettò uno sguardo malcelato alle forme strabilianti della segretaria del capo, bussò alla porta e entrò.
Il dottor Salis era seduto al suo posto, sotto la finestra, sgranocchiando i resti di una cena modesta preparata a casa, con gli occhi e con la mente in un altro punto del mondo, tra le palme caraibiche del suo desktop. Sfogliando l’incartamento della busta si scrollava distrattamente le briciole di dosso.


Egregio dott. Salis,
Voglio darle un’informazione, e nel farlo sarò breve; riguarda Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. So che lei lo ha letto qualche sera fa so anche che si è addormentato a pagina 45, ma soprattutto so che nei suoi sogni, che suo malgrado la mattina dopo aveva dimenticato, si trovava, in nuce, un riflesso della verità che io ora le offro.
Melissa P non esiste, o meglio, non è la ragazzina spregiudicata e sessuomane che tutti pensano sia. Di più, Melissa P è un pseudonimo dietro il quale si nasconde un ombra ingombrante. Spero che al suo ingegno, che reputo alto, bastino queste parole:
STAT ROSA PRISTINA NOMINE, NOMINA SOLA TENEMUS.
addio.


Il dott. Salis Inizialmente pensò ad uno scherzo, alzò un sopracciglio al suo modo e guardò il dottor Farrugia, È uno scherzo, vero?. La risposta negativa, implicita nello sguardo sperso dello stagista, non poteva certo convincerlo. In fondo neppure era una domanda quella che gli aveva rivolto, era soltanto un riflesso incondizionato, la mai sopita abitudine di pensare ad alta voce.
Il dott. Salis aveva naturalmente capito al volo l’allusione del misterioso mittente e non perse tempo. Era venerdì, mancavano poche ore all’impaginazione definitiva della Domenica. Scrisse il pezzo in due colonne. Cercò nell’archivio una foto abbinabile al pezzo. Chiamò l’impaginatore e il titolista. Infine soddisfatto se ne andò a casa, aspettando l’esito delle sue parole. Solamente davanti all’uscio di casa pensò che forse non era stato troppo prudente.
La domenica la passò a casa, con un nodo allo stomaco facilmente spiegabile, temeva, anzi peggio, aspettava che il telefonino iniziasse a vibrare, che la voce del suo avvocato lo informasse di una denuncia per diffamazione giunta alla redazione.
Aspettò fremente tutto il giorno. Rimase sveglio fino a mezzanotte passata, ma nulla successe, il telefonino vibrò solo all’arrivo di un messaggio di recall, erano quasi le tre.
La mattina dopo arrivò in redazione presto, ma non per primo. Quando aprì la porta del suo ufficio si trovò davanti, legati e imbavagliati, il dottor Farrugia e la bellissima segretaria. Comprese che qualcosa stava accadendo solo quando sentì dietro di sé chiudersi la porta e girare la chiave nella toppa, ma non fece in tempo neppure a voltarsi.


Sono tutti e tre imbavagliati, il ragazzo, una ragazza molto bella e un uomo sui quaranta. Stanno per terra. Il ragazzo ha sonno, gli cade la testa di lato. La ragazza è svenuta, è per terra.
È un uomo robusto dalle spalle larghe, il rapitore , non sembra giovane


Dottor Salis, mi deve delle spiegazioni, o sbaglio? Allora mi spieghi, su, mi dica chi ha fatto la soffiata. Il dottor Salis, imbavagliato, ha appena iniziato a boffonchiare qualche brano di frase inavvertibile, quando squilla il telefono, interrompendolo. È la polizia, messa in allarme dal lavavetri dell’edificio, che appoialato fuori dalla finestra ha assistito alla scena del rapimento e ha dato l’allarme.
Il rapitore si dirige al telefono, parla in francese, Je suis un combatant du front popular d’Algerie, Je’ai rapitò le docteur Salìs, son secrétaire e son assistant. Pourtez-moi un elicopterò, altremont je tagl a tout la goule à mort.
Il dottor Farrugia, che di origine è francese, è l’unico che può comprendere le parole del rapitore e si spaventa non poco. La segretaria, che in qualche modo deve aver capito la questione dal tono incattivito della sua voce, appena ridestatasi risviene.
Nelle ore seguenti la scena si replica altre cinque, altre sei volte. Ogni volta il tono della voce, la lingua e l’accento del rapitore cambiano radicalmente. Dal siculomafioso all’indipendentbasco, passando dal gaelico e da un arabo finissimo.
Sia nel piccolo ufficio gli ostaggi legati, sia giù in strada la polizia, nella persona del commissario Cupardo, si sono decisamente insospettiti. I primi, il dottor Salis e il dottor Farrugia, non sanno proprio che pensare. Il secondo, il commissario Cupardo, puranche.
Arrivano le due di notte e le grida e i canti traballanti della Milano alcolica da bere, un paio di vomitate fregiano le ruote posteriori della macchina del commissario che nel frattempo fa l’ennesimo tentativo telefonico, forse l’ultimo dei tentativi per capirci qualcosa.
Il rumore del venerdì sera, le grida e i canti rendono incomprensibili le parole urlate dal commissario nell’apparecchio, sembra di assistere ad un controcampo di una di quelle conversazioni che in un bel film di spionaggio non si devono carpire, se si voglia godere della suspence insita nel genere. Solo qualche parola filtra dal rumore… pare latino!
La telefonata è finita, il volto del commissario è sudato, pensoso, come chi abbia risolto un enigma o si ad un passo dal farlo. Sta pensando a Franco Brioschi, un suo professore dei tempi dell’università a cui era stato molto legato, e che diceva sempre che "A parlare un latino fluido in Italia non sono rimasti che il Papa e Umberto Eco".
Il papa è in viaggio d’affari in Turchia, anche un idiota capirebbe.
Ora il lento fluire delle lacrime di sudore dalla fronte del commissario è inversamente proporzionale alla velocità dei suoi pensieri. Quante cose gli vengono in mente! E tutte nello stesso istante, il tutto non appena il suo sguardo casca sull’articolo della Domenica del Sole, SCANDALO NEL MONDO LETTERARIO, MELISSA P È UNO PSEUDONIMO DI UMBERTO ECO, la firma è di Stefano Salis.



È ormai profonda la notte, e buia, il telefono squilla nel silenzio dell’ufficio. La segretaria è ancora svenuta, il dottor Salis e il dottor Farrugia si sono stufati da tempo di lamentarsi e, non sapendo più a cosa pensare, vorrebbero solo che tutto al più presto finisse.
Anche il professor Eco è stufo di giocare, ma anche lui è confuso, è stato troppo maldestro ed è stato scoperto. Non avrebbe dovuto usare il latino, lo sapeva, ha esagerato, l’ispettore ha capito, ha capito tutto. Lo scandalo che voleva insabbiare, il suo essere padre dei gemiti, delle perversioni di Melissa P e di tutte le altre porcate radicalpop non potrà più essere negato. Tutta una vita per diventare Umberto Eco e ora in mano un pugno di mosche.
Ad un tratto il fax, l’ermes moderno che trilla, sderedegna e stampa il terribile messaggio: due fogli di A4 in times, corpo 12, neanche troppo fitti. Umberto Eco le legge d'un fiato, le ultime parole sono DE TE FABULA NARRATUR, di te si parla nella storia…


E il corpo di Umberto Eco cade, anticipandone l’ombra, come corpo morto, senza neppure capire perché. E dell’ufficio, delle curve della bella segretaria, del commissario Cupardo e della Milano alcoolica da bere non rimane altro che un pugno di caratteri da scordare.

14 giugno 2007

Il salto nel vuoto

Giovanni e Sonia stanno facendo l’amore, hanno quasi trentanni e da dieci sono insieme. Ci sono stati amori migliori tra di loro, ma non si possono lamentare. Il problema inizialmente è tutto di Giovanni, sta pensando ad un'altra, inutile dire che la questione in un secondo dalla mente è passata ai fatti di lui, ai gesti. Si è immobilizzato, è sbiancato in viso. Cosa succede? Sonia si preoccupa, capisce al volo che qualcosa non va. Cos’hai amore? La mummia di Giovanni non sa rispondere, è nell’attimo di smarrimento. Ho pensato ad un’altra… le risponde con un filo di farfuglio. Ho pensato ad un’altra… ribadisce. La faccia di lei non si potrebbe descriverla, sarebbe storia da tenere privata, basti dire che, strabuzzati gli occhi e abbandonata la mascella, una riga di un misto di sudore e lacrime le attraversa lo zigomo. È finita, dice Sonia trattendo l’urlo, Non si può… e scoppia in lacrime, questa volta pùre. Giovanni nota la lacrima e la asciuga, Non so che dirti Sonia, che dirti a scusa?, ma lo dice già prendendo la rincorsa verso la finestra spalancata sulla strada.

11 giugno 2007

La notizia che il mondo esiste

Dalle agenzie è battuta la notizia
che il mondo esite è cosa certa dice
uno studio americano d’eccellenza.
E la gente corre in strada nelle piazze in festa
scambia abbracci
per baci e il contrario
Esistiamo! Finalmente è certo! Ma nessuno
si avvede di quell’ombra

che dalla malchiusa finestra osserva

E prende nota,
e sorride,
e scrive.

una bolla di catarro

Quando eravamo piccoli
(i piccoli figli dell’italia – ricordi –
ci dicevano) insieme giocavamo alla guerra delle ghiande.
Ricordo che un giorno,
pur avendo un raffreddore,
rifiutasti
sdegnoso Il fazzoletto di cotone che ti porsi
e tirasti su col naso una bolla di catarro.
Da allora

le nostre strade si divisero e divennero
euclidee rette parallele
(io impiegato, tu ministro delle lettere)
ma quella bolla di catarro
ancor oggi nel tuo cervello si dimena.

Un'ilarotragedia

Attenzione! – s’ode l’urlo dal megafono –
Qui passa l’esercito imperiale!
Qui passano gli eroi!
Ma nulla è quel che sembra ed io fanciullo,
li vedo come sono
: dei re nudi
ornati di pantofole e marmitte
di pentole e mattarelli di cartone.
Ed io non posso non ridere di loro
non posso non correre lontano a sganasciarmi.
Ma una volta finita la risata
è un’ilarotragedia
perche tutti muti li guardate
con quel vostro solito sguardo candido
di finta ammirazione.