21 marzo 2007

L'ultima notte della città di Uncsar

Lo conobbi una sera d’estate, col vento di zeffiro che spirava caldo, dal mare. Era seduto, alla sua maniera, al bancone di un piccolo baretto, in una piccola isola perduta mediterraneo. Non saprei dire quanti anni avesse, la barba, bianchissima e folta, ne avrebbe fatto un centenario, ma i suoi occhi, di un azzurro limpido, sembravano quelli di un ragazzo, intensi e diretti verso il mondo.
Mi raccontò delle storie, non saprei dire se le inventò in quel momento o se facevano parte di quel bagaglio, a volte pesante da trasportare, che ognuno di noi accumula nel breve sogno della sua vita. In ogni caso quelle storie sembravano vivere una effettiva realtà attraverso le parole misurate e precise che la voce suadente del vecchio declamava.
Mi raccontò di una dimora fantastica,a pochi chilometri dalla luna, circondata da altissime mura nere come la pece o blu come l’eterno, non ricordo bene, tempestate di luci stellari ; mi parlò di deserti dove il corpo si perde ma l’anima, quella no, continua a vivere e s’innalza ai livelli massimi della consapevolezza fino a vedere l’ombra degli dei festanti.
Mi raccontò delle sanguinose ed interminabili battaglie titaniche e di dei, stanchi e vecchi che, ebbri di vino, piegarono i monti e squarciarono le pianure alla vana ricerca del senso di quella loro labirintica creazione.
Parlò per ore e le sue parole sembravano ora lampi, nella notte dell’ignoranza, ora goccie di pioggia, che lavano la superbia e mondano l’anima, e le parole si univano in frasi, definitive, dipingendo mondi alteri e incomprensibili per la mia mente. Come i lampi formano l’essenza delle tempeste, le sue frasi si univano ramificandosi in storie terrificanti e sublimi, dolcissime e meravigliose, come quando mi parlò della caduta di Uncsar, ultima dimora degli dei.
Era notte di festa nelle strade di Uncsar, e la sua popolazione immortale festeggiava il ciclo dell’universo, il culmine dell’espansione e il ritorno al tutto.
L’energia festante si materializzava in bolle di fuoco e di fiamme che salivano agli astri come freccie brucianti e uno strano intruglio etilico scorreva copioso nei calici traboccanti degli dei festanti.
I profeti lo avevano predetto, millenni prima, e gli scienziati lo confermarono : sarebbe stata l’ultima sera di Uncsar. All’alba del giorno dopo, qualcuno o qualcosa (questo nessuno poteva saperlo) avrebbe spazzato via per sempre la città immortale ed i suoi abitanti. Tutti erano stati messi al corrente, tutti sapevano, e festeggiavano. Si festeggiava la fine di un’epoca, la fine di tutti loro, ma, contemporaneamente, si festeggiava quello che dopo quel giorno sarebbe continuato, mutando, perché come tutti sapevano bene nella città di Uncsar, quando qualcosa finisce c’è sempre qualcosa che ricomincia dalle sue ceneri. Come una fenice la città di Uncsar correva verso il suo destino, festeggiando.
Era appena calato il sole, per l’ultima volta, su Uncsar, ultima città immortale, e tutti erano in strada, a festeggiare. La festa durò per tutti gli infiniti momenti che separano ogni tramonto dall’alba successiva, fu una festa infinità degna degli dei. Ma quando l’infinita serie dei secondi giunse all’inizio dell’infinita serie successiva, qualcosa cambiò repentinamente. In un tempo incalcolabilmente minimo, anzi in un tempo inesistente tutto mutò, e mentre qualcosa cessava di esistere qualcosa nacque ed iniziò a crescere. Le mura nere o blu di Uncsar caddero sotto il peso del destino per diventare cielo, le case di terra rossa indurita dall’eternità si disgregarono per ricomporsi infinite volte a creare i mondi, e le bolle di fuoco e di fiamme si sparsero per l’universo per accendere le stelle. I volti dei popoli che si chiamavano Dei scomparvero e nessuno li vide mai più, le loro urla, di gioia o di terrore si diffusero a creare i suoni e il loro movimento avrebbe creato i venti che soffiano incessanti per tutto l’universo. Questo fu l’ultimo degli infiniti attimi di Uncsar. Quindi il vecchio prese a descrivere l’istante in cui il tutto, disgregato e multiforme, cambiò, ma usò parole strane e incomprensibili il cui suono terrorizza e non può essere pronunciato e le cui lettere sono affreschi meravigliosi e non possono essere scritte, i suoi occhi si accesero, le mani spinsero l’aria in alto, infine il suo ghigno, non lo scorderò mai, illuminò il mare di una luce irreale, che mai prima di allora avevo visto. Non mi è possibile ripetere le cose che egli disse in quei lunghi istanti, esse sono esprimibili solo attraverso parole inumane, divine.