19 febbraio 2010

Fugaci i sistemi come schiuma: l'Apocalisse secondo Jack London

Alla moltitudine di lettori cui fa comodo tenere Jack London nella tranquillizzante gabbia della letteratura destinata agli adolescenti, la lettura di un testo come La peste scarlatta non può che far bene. Perché questo racconto lungo, pur nella sua dimensione di scritto minore, contiene in sè alcuni dei tratti tipici di Jack London di cui quella moltitudine troppo spesso si dimentica: la capacità di ritrarre la violenza e il cinismo della società umana, la desolante solitudine dell'uomo, l'irriducibilità della natura a pacifico sfondo delle vicende umane, tratti che lo ascrivono a pieno diritto nel Canone della Modernità.
Ambientato negli anni '70 del XXI secolo in una California post-apocalittica, ridotta a Waste Land dopo la scomparsa della quasi totalità del genere umano, avvenuta nel 2013 a causa di un germe mortifero, La peste scarlatta è un racconto che si giustifica nell'oralità. Si configura infatti come una narrazione orale, una testimonianza che il Vecchio, l'ultimo esponente della generazione che ha assistito all'apocalisse e le è soppravvisuto, racconta al “branco” dei nipoti.
Come gli uomini che popolano la landa desolata che una volta era la California, vestiti di pelli d'orso o di pecora e armati di archi e frecce, la narrazione del Vecchio ha i caratteri della primitività, una primitività che trova la sua sede naturale nel linguaggio, un inglese semplificato, immagine svilita dell'antica lingua inglese, corrotta da 60 anni anni di vita selvaggia. Un linguaggio a cui il Vecchio, ex professore di Letteratura Inglese alla Università della California, è obbligato, pena l'incomunicabilità con i nipoti, ai quali si ritrova a spiegare termini come “denaro”, “istruzione”, “scarlatto”, che nel loro nuovo idioma, la cui referenza è una realtà selvatica e primitiva, non hanno alcun senso.
Ma quello dell'incomunicabilità  linguistica non è l'unico contrappasso che il Vecchio deve scontare, e non è nemmeno il più cocente, perché ancor più  cocente riusulta essere il contrappasso sociale. L'avvento del germe mortifero, infatti, ha resettato le differenze sociali, le ha sovvertite. E così la moglie di uno dei Magnati dell'Industria, la donna più ricca e potente del mondo, sopravvissuta alla catastrofe, è diventata la donna-schiava di un Autista burbero e incolto, mentre lui, il Vecchio, che fu un colto e raffinato professore universitario, deve accontentarsi di una semplice e illetterata domestica.
L'Apocalisse, incarnata dalla peste scarlatta che ha sconvolto il mondo, ha spazzato via una società ingiusta, che traspare in tutto il suo cinismo ipocrita dai discorsi del Vecchio:
“Chi ci procurava da mangiare era chiamato uomo libero. Ma solo per scherzo. Noi della classe dirigente possedevamo tutta la terra, tutte le macchine, tutto. Chi ci procurava da mangiare era nostro schiavo. Prendevamo quasi tutto il cibo che ci procuravano e gli lasciavamo quel minimo bastante per sfamarsi, lavorare e procurarci altro cibo...”
Una società arrogante, ipocrita, schiavista, nel cui cinismo il lettore non può non notare, come in uno specchio, il nitido riflesso dei caratteri dominanti della nostra epoca, terribilmente vicina al 2013, che casualmente oltrepassa solo di un anno quel 2012 a cui i superstiziosi guardano con timore. Una società che, come la nostra, si credeva al di sopra della natura, ma che era destinata, come tutto, a finire.
“Fugaci i sistemi come schiuma”, ripete spesso il Vecchio, intercalando al suo racconto il verso di un poeta californiano d'inizio Novecento. Un verso che, soprattutto di questi tempi, sarebbe il caso di tenere a mente.

Pubblicato su Colibrì (Periodico dei Soci di Festivaletteratura di Mantova)