19 dicembre 2008

La vendetta di Jorge Luis Borges



Viaggiavo sul treno di mezzanotte che da Trieste porta a Budapest, un viaggio di circa dieci ore che mi avrebbe portato al sicuro. Avevo un appuntamento nel retro di un'osteria, vicino al Danubio, con qualcuno che, almeno così mi era stato assicurato, mi avrebbe fornito dei nuovi documenti, finalmente avrei potuto cancellare la mia colpa, dimenticare. Viaggiavo, dicevo, sul treno che da Trieste porta a Budapest ed ero seduto, in direzione di marcia, a fianco del finestrino, che il buio esterno trasformava in uno specchio. Mentre il treno sfrecciava nella notte come una pallottola, cercavo di annacquare la mia vertigine con la lettura dell'Aleph di Borges, l'unico libro che ero riuscito a portare con me nella fuga, nella speranza che, come molte altre volte, le architetture arcuate dell'argentino mi avrebbero aiutato a dimenticare l'inquietudine, o quantomeno a conviverci. Viaggiavo, dicevo, su quel treno, veloce come una pallottola, e dividevo lo scompartimento con una ragazza i cui riccioli neri, dei veri e propri tentacoli, minacciavano ad ogni istante di avvolgermi. 

Eravamo già fuori dall'Italia da un paio d'ore quando, ad una fermata secondaria di cui non ricordo assolutamente il nome, salì il diavolo in persona. Era un vecchio canuto, molto ben vestito, portava un paio di occhiali da sole con le lenti laterali e un gran cappello a tesa larga che subito si levò, da gran signore. Dopo qualche minuto passato in silenzio e speso a guardarsi in giro, egli mi rivolse la parola, presentandosi. Aveva una voce pastosa, ma parlava un discreto italiano. Poi mi chiese a bruciapelo. Se lei avesse la possibilità di viaggiare nel tempo, Quando andrebbe? E Dove? Ovviamente, sulle prime, fui un po' interdetto, soprattutto per la familiarità con la quale egli mi si rivolgeva. Poi, dopo aver riflettuto qualche secondo, guardandomi nelle sue lenti a specchio, gli risposi: Andrei certamente al 30 aprile del 1941, alle 8 di sera, in calle Garay, a Buenos Aires. Feci uno strano sorriso, come di autocompiacimento, che intravidi riflesso nei suoi occhiali... Mmmhhh 30 aprile, pensi che qualche giorno fa ho mandato un tizio a Berlino, proprio il 30 aprile, ma del 1945, voleva vedere se Hitler aveva avuto il coraggio di farsi sparare o no... eh eh eh... ma lei... a Buenos Aires... mi lasci pensare... mmmhhh.... come mai questa scelta? Prima di rispondergli deglutii e mi schiarii leggermente la voce. Voglio vedere l'Aleph... ha presente? Borges...Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra... Ahhhh... eh eh eh... Borges... certo che ce l'ho presente... pensi, gli ho fatto questa stessa domanda nel 1980... eh eh eh... Il panico iniziale era sparito dal mio animo, avevamo rotto il ghiaccio ormai. Mi sentivo un come dopo la prima domanda di un esame, quando la tensione cala e si riprende il controllo di sé stessi , così lo interruppi: E dove le ha chiesto di andare, e quando? Non mi rispose, continuando a ridere... Ma non ebbi il tempo per chiedergli spiegazioni perché, tra uno sbattere delle palpebre e il successivo, egli non era più davanti a me, come non era più al mio fianco la bella ragazza mora e dormiente. Inutile dire che non mi trovavo più sul treno...





Ero in una via dalle case tutte uguali. Il cielo era scuro, ma non faceva né caldo né freddo. Ogni dieci metri un lampione illuminava una piccola porzione di strada. Ce n'era uno che illuminava un piccolo cartello, Calle Garay... Ad una ventina di metri da me un uomo camminava tranquillo, guardandosi intorno, nella mano aveva una bottiglia di cognac, sotto l'ascella un torrone. Ovviamente lo capii subito che era lui, era Borges, e si stava dirigendo, come faceva il 30 aprile di ogni anno, a trovare Carlos Argentino Daneri, cugino di Beatriz Viterbo, morta precocemente una decina di anni prima, nel 1929, e da lui molto amata. Quel 30 aprile però era una data importante non a caso l'avevo scelta. Quel giorno, infatti, Carlos Argentino Daneri avrebbe letto a Borges alcune delle stanze del suo poema segreto intitolato La Terra, pretenzioso tentativo di Danari di mettere in versi tutta la rotondità del pianeta. Quel poema, più tedioso e vasto dell'Adone del Marino, era ispirato dall'assidua frequentazione dell'Aleph che Danari custodiva segretamente in cantina. Di più, quel folle poema era la prova più tangibile della sua esistenza: l'Aleph, il luogo dove si trovano senza confondersi tutti i luoghi della terra, il punto onnicomprensivo dove Borges vide, tra le altre cose, i resti atroci di quanto era stata Beatriz, la circolazione del suo sangue, il meccanismo dell'amore e la modificazione della morte, il suo volto, le sue viscere, e il tuo volto, con ogni probabilità anche il mio.


Dovevo vederlo anch'io, dovevo vedere l'Aleph.

Non indugiai un minuto, feci due o tre passi di corsa e lo colpii sul retro del ginocchio con una ginocchiata. Borges cadde come pasta molle, allora continuai, colpendolo prima sulla schiena con una gragnola di calci e poi in testa col calcio che lo fece svenire. Mi guardai intorno, nessuno mi aveva visto. Trascinai il corpo dietro una siepe, gli sfilai da sotto l'ascella il torrone, dalla mano gli presi la bottiglia di cognac e percorsi gli ultimi metri per arrivare alla casa che fu di Beatriz Viterbo, la casa nella cui cantina, io lo sapevo, c'era l'Aleph. Bevvi una gran sorsata di Cognac che trovai molto buono (Borges aveva gusto nello scegliere l'alcool, non l'avrei mai detto). Mi asciugai la bocca con la manica della camicia e suonai al campanello. Dopo qualche istante Carlos Argentino Daneri aprì la porta. Era un ometto minuscolo, pallido e raggrinzito, doveva avere meno di sessant'anni, ma li portava molto male. Mi guardò distrattamente e mi chiese gentilmente cosa volessi. Gli risposi freddo, fissandolo negli occhi. Voglio vedere l'Aleph. Si fece ancora più bianco in volto, il suo segreto era stato scoperto, e non poteva neanche spiegarsi come. Non sapeva che Borges, qualche anno dopo, avrebbe descritto i loro incontri, la sua casa, e l'Aleph stesso in un racconto, dal titolo l'Aleph per l'appunto. Non poteva proprio saperlo. Non gli lasciai il tempo per decidere che fare, lo colpii, con un colpo secco di ginocchio nei testicoli, che lo fece accasciare sulle ginocchia, allora gli rifilai una seconda ginocchiata sul mento, più secca e più forte dell'altra. Quando cadde per terra svenuto, mi vennero in mente le parole con le quali Borges descrisse i suoi abominevoli versi. Il processo sommario che lo giudicò colpevole di alto tradimento della Poesia e di Disonestà Intellettuale, si svolse in pochi secondi nella mia mente. La condanna fu la morte, da eseguirsi all'istante a mezzo bottiglia di cognac spaccata sul cranio. Ora ero dentro la casa di Carlos Argentino Daneri, il cui sangue, intanto, si spandeva copioso sul pavimento. Mi guardai intorno, vidi tutti i volti di Beatriz, a colori, di profilo, con la maschera nel carnevale del 1921, alla prima comunione, il giorno del suo matrimonio con Roberto Alessandri. Fissai tutti quei ritratti e mi ritrovai a pensare che, in fondo, Beatriz non era affatto una bella donna, tutte le volte che avevo letto di lei nel racconto di Borges me l'ero immaginata come una donna affascinante, longilinea, dal portamento nobile e dallo sguardo intenso. A scoprirla una cicciona dallo sguardo cretino ci rimasi un po' male, devo ammetterlo. In ogni caso non era Beatriz che mi interessava, stavo cercando l'Aleph e sapevo bene dove trovarlo. Aprii l'Aleph a pagina 163 dell'edizione Feltrinelli (quella bianca con in copertina l'alfabeto animato di Cuniberti), esattamente quando Carlos Argentino Danari dice a Borges: “Un bicchierino di pseudo-cognac e ti tufferai in cantina. Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche l'oscurità, l'immobilità, un certo adattamento dell'occhio. Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della scala. Me ne vado, abbasso la botola e resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi minuti vedrai l'Aleph!” Seguii le istruzioni alla lettera, bevvi il bicchierino di cognac, mi sdraiai, seppur con un certo fastidio, sul pavimento umido della cantina. Poi contai fino al diciannovesimo gradino e aspettai. Dopo qualche minuto lo vidi, vidi l'Aleph... fu spettacolare e disarmante, splendido e terrificante, perché vidi tutto, tutto.

Era vero!!!! Nella piccola sfera cangiante di due o tre centimetri di diametro tutto il mondo era contenuto, ma che dico il mondo, l'universo... tra le altre cose vidi una grande esplosione, vidi un pianeta vorticoso e nero farsi verde, ricoprirsi d'acque... vidi una cordigliera di ossa di dinosauri, vidi l'Albatros, vidi il marinaio che lo vide, vidi un vecchio che sorrideva, vidi il volto dell'assassino di Cesare, vidi il volto di Dio, di Jhvh e di Allah, era lo stesso ed era il tuo, vidi il volto di tutta la mia stirpe, mi vidi attraverso lo sguardo impaurito di una donna, provai esattamente la sua paura, vidi delle facce che mai avevo visto, vidi il mio volto esplodere, vidi Borges... con le ultime energie che mi restavano (una cosa che Borges omette nel suo racconto è la fatica, enorme, nell'osservare l'Aleph) riuscii a chiudere gli occhi ed porre fine al terrificante spettacolo... Quando riaprii gli occhi ero sul treno, ero di nuovo nel presente. Notai che c'era solo la donna nello scompartimento e mi fissava. Per la prima volta le vidi gli occhi, di un verde profondissimo. Le sorrisi, ma subito mi accorsi che il suo sguardo era di terrore, ma soprattutto che non era me che stava fissando perchè l'oggetto del suo terrore era dietro di me. Alzai lo sguardo verso il finestrino-specchio e lo vidi. Era Borges.

Non ebbi il tempo di sentire il gelo della lama toccarmi la gola. Non provai nessun dolore.