19 dicembre 2008

La vendetta di Jorge Luis Borges



Viaggiavo sul treno di mezzanotte che da Trieste porta a Budapest, un viaggio di circa dieci ore che mi avrebbe portato al sicuro. Avevo un appuntamento nel retro di un'osteria, vicino al Danubio, con qualcuno che, almeno così mi era stato assicurato, mi avrebbe fornito dei nuovi documenti, finalmente avrei potuto cancellare la mia colpa, dimenticare. Viaggiavo, dicevo, sul treno che da Trieste porta a Budapest ed ero seduto, in direzione di marcia, a fianco del finestrino, che il buio esterno trasformava in uno specchio. Mentre il treno sfrecciava nella notte come una pallottola, cercavo di annacquare la mia vertigine con la lettura dell'Aleph di Borges, l'unico libro che ero riuscito a portare con me nella fuga, nella speranza che, come molte altre volte, le architetture arcuate dell'argentino mi avrebbero aiutato a dimenticare l'inquietudine, o quantomeno a conviverci. Viaggiavo, dicevo, su quel treno, veloce come una pallottola, e dividevo lo scompartimento con una ragazza i cui riccioli neri, dei veri e propri tentacoli, minacciavano ad ogni istante di avvolgermi. 

Eravamo già fuori dall'Italia da un paio d'ore quando, ad una fermata secondaria di cui non ricordo assolutamente il nome, salì il diavolo in persona. Era un vecchio canuto, molto ben vestito, portava un paio di occhiali da sole con le lenti laterali e un gran cappello a tesa larga che subito si levò, da gran signore. Dopo qualche minuto passato in silenzio e speso a guardarsi in giro, egli mi rivolse la parola, presentandosi. Aveva una voce pastosa, ma parlava un discreto italiano. Poi mi chiese a bruciapelo. Se lei avesse la possibilità di viaggiare nel tempo, Quando andrebbe? E Dove? Ovviamente, sulle prime, fui un po' interdetto, soprattutto per la familiarità con la quale egli mi si rivolgeva. Poi, dopo aver riflettuto qualche secondo, guardandomi nelle sue lenti a specchio, gli risposi: Andrei certamente al 30 aprile del 1941, alle 8 di sera, in calle Garay, a Buenos Aires. Feci uno strano sorriso, come di autocompiacimento, che intravidi riflesso nei suoi occhiali... Mmmhhh 30 aprile, pensi che qualche giorno fa ho mandato un tizio a Berlino, proprio il 30 aprile, ma del 1945, voleva vedere se Hitler aveva avuto il coraggio di farsi sparare o no... eh eh eh... ma lei... a Buenos Aires... mi lasci pensare... mmmhhh.... come mai questa scelta? Prima di rispondergli deglutii e mi schiarii leggermente la voce. Voglio vedere l'Aleph... ha presente? Borges...Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra... Ahhhh... eh eh eh... Borges... certo che ce l'ho presente... pensi, gli ho fatto questa stessa domanda nel 1980... eh eh eh... Il panico iniziale era sparito dal mio animo, avevamo rotto il ghiaccio ormai. Mi sentivo un come dopo la prima domanda di un esame, quando la tensione cala e si riprende il controllo di sé stessi , così lo interruppi: E dove le ha chiesto di andare, e quando? Non mi rispose, continuando a ridere... Ma non ebbi il tempo per chiedergli spiegazioni perché, tra uno sbattere delle palpebre e il successivo, egli non era più davanti a me, come non era più al mio fianco la bella ragazza mora e dormiente. Inutile dire che non mi trovavo più sul treno...





Ero in una via dalle case tutte uguali. Il cielo era scuro, ma non faceva né caldo né freddo. Ogni dieci metri un lampione illuminava una piccola porzione di strada. Ce n'era uno che illuminava un piccolo cartello, Calle Garay... Ad una ventina di metri da me un uomo camminava tranquillo, guardandosi intorno, nella mano aveva una bottiglia di cognac, sotto l'ascella un torrone. Ovviamente lo capii subito che era lui, era Borges, e si stava dirigendo, come faceva il 30 aprile di ogni anno, a trovare Carlos Argentino Daneri, cugino di Beatriz Viterbo, morta precocemente una decina di anni prima, nel 1929, e da lui molto amata. Quel 30 aprile però era una data importante non a caso l'avevo scelta. Quel giorno, infatti, Carlos Argentino Daneri avrebbe letto a Borges alcune delle stanze del suo poema segreto intitolato La Terra, pretenzioso tentativo di Danari di mettere in versi tutta la rotondità del pianeta. Quel poema, più tedioso e vasto dell'Adone del Marino, era ispirato dall'assidua frequentazione dell'Aleph che Danari custodiva segretamente in cantina. Di più, quel folle poema era la prova più tangibile della sua esistenza: l'Aleph, il luogo dove si trovano senza confondersi tutti i luoghi della terra, il punto onnicomprensivo dove Borges vide, tra le altre cose, i resti atroci di quanto era stata Beatriz, la circolazione del suo sangue, il meccanismo dell'amore e la modificazione della morte, il suo volto, le sue viscere, e il tuo volto, con ogni probabilità anche il mio.


Dovevo vederlo anch'io, dovevo vedere l'Aleph.

Non indugiai un minuto, feci due o tre passi di corsa e lo colpii sul retro del ginocchio con una ginocchiata. Borges cadde come pasta molle, allora continuai, colpendolo prima sulla schiena con una gragnola di calci e poi in testa col calcio che lo fece svenire. Mi guardai intorno, nessuno mi aveva visto. Trascinai il corpo dietro una siepe, gli sfilai da sotto l'ascella il torrone, dalla mano gli presi la bottiglia di cognac e percorsi gli ultimi metri per arrivare alla casa che fu di Beatriz Viterbo, la casa nella cui cantina, io lo sapevo, c'era l'Aleph. Bevvi una gran sorsata di Cognac che trovai molto buono (Borges aveva gusto nello scegliere l'alcool, non l'avrei mai detto). Mi asciugai la bocca con la manica della camicia e suonai al campanello. Dopo qualche istante Carlos Argentino Daneri aprì la porta. Era un ometto minuscolo, pallido e raggrinzito, doveva avere meno di sessant'anni, ma li portava molto male. Mi guardò distrattamente e mi chiese gentilmente cosa volessi. Gli risposi freddo, fissandolo negli occhi. Voglio vedere l'Aleph. Si fece ancora più bianco in volto, il suo segreto era stato scoperto, e non poteva neanche spiegarsi come. Non sapeva che Borges, qualche anno dopo, avrebbe descritto i loro incontri, la sua casa, e l'Aleph stesso in un racconto, dal titolo l'Aleph per l'appunto. Non poteva proprio saperlo. Non gli lasciai il tempo per decidere che fare, lo colpii, con un colpo secco di ginocchio nei testicoli, che lo fece accasciare sulle ginocchia, allora gli rifilai una seconda ginocchiata sul mento, più secca e più forte dell'altra. Quando cadde per terra svenuto, mi vennero in mente le parole con le quali Borges descrisse i suoi abominevoli versi. Il processo sommario che lo giudicò colpevole di alto tradimento della Poesia e di Disonestà Intellettuale, si svolse in pochi secondi nella mia mente. La condanna fu la morte, da eseguirsi all'istante a mezzo bottiglia di cognac spaccata sul cranio. Ora ero dentro la casa di Carlos Argentino Daneri, il cui sangue, intanto, si spandeva copioso sul pavimento. Mi guardai intorno, vidi tutti i volti di Beatriz, a colori, di profilo, con la maschera nel carnevale del 1921, alla prima comunione, il giorno del suo matrimonio con Roberto Alessandri. Fissai tutti quei ritratti e mi ritrovai a pensare che, in fondo, Beatriz non era affatto una bella donna, tutte le volte che avevo letto di lei nel racconto di Borges me l'ero immaginata come una donna affascinante, longilinea, dal portamento nobile e dallo sguardo intenso. A scoprirla una cicciona dallo sguardo cretino ci rimasi un po' male, devo ammetterlo. In ogni caso non era Beatriz che mi interessava, stavo cercando l'Aleph e sapevo bene dove trovarlo. Aprii l'Aleph a pagina 163 dell'edizione Feltrinelli (quella bianca con in copertina l'alfabeto animato di Cuniberti), esattamente quando Carlos Argentino Danari dice a Borges: “Un bicchierino di pseudo-cognac e ti tufferai in cantina. Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche l'oscurità, l'immobilità, un certo adattamento dell'occhio. Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della scala. Me ne vado, abbasso la botola e resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi minuti vedrai l'Aleph!” Seguii le istruzioni alla lettera, bevvi il bicchierino di cognac, mi sdraiai, seppur con un certo fastidio, sul pavimento umido della cantina. Poi contai fino al diciannovesimo gradino e aspettai. Dopo qualche minuto lo vidi, vidi l'Aleph... fu spettacolare e disarmante, splendido e terrificante, perché vidi tutto, tutto.

Era vero!!!! Nella piccola sfera cangiante di due o tre centimetri di diametro tutto il mondo era contenuto, ma che dico il mondo, l'universo... tra le altre cose vidi una grande esplosione, vidi un pianeta vorticoso e nero farsi verde, ricoprirsi d'acque... vidi una cordigliera di ossa di dinosauri, vidi l'Albatros, vidi il marinaio che lo vide, vidi un vecchio che sorrideva, vidi il volto dell'assassino di Cesare, vidi il volto di Dio, di Jhvh e di Allah, era lo stesso ed era il tuo, vidi il volto di tutta la mia stirpe, mi vidi attraverso lo sguardo impaurito di una donna, provai esattamente la sua paura, vidi delle facce che mai avevo visto, vidi il mio volto esplodere, vidi Borges... con le ultime energie che mi restavano (una cosa che Borges omette nel suo racconto è la fatica, enorme, nell'osservare l'Aleph) riuscii a chiudere gli occhi ed porre fine al terrificante spettacolo... Quando riaprii gli occhi ero sul treno, ero di nuovo nel presente. Notai che c'era solo la donna nello scompartimento e mi fissava. Per la prima volta le vidi gli occhi, di un verde profondissimo. Le sorrisi, ma subito mi accorsi che il suo sguardo era di terrore, ma soprattutto che non era me che stava fissando perchè l'oggetto del suo terrore era dietro di me. Alzai lo sguardo verso il finestrino-specchio e lo vidi. Era Borges.

Non ebbi il tempo di sentire il gelo della lama toccarmi la gola. Non provai nessun dolore.




23 settembre 2008

"Dreams with sharps teeth" di Erik Nelson

A scorrere la biografia di Harlan Ellison si ha l'impressione di avere a che fare con un gigante della letteratura contemporanea, con uno spietato ed inarrestabile critico della società, con un fine provocatore, con uno stronzo. Ma l'Harlan Jay Ellison che emerge dal documentario di Erik Nelson "Dreams with sharp teeth", sembra essere molto di più, sembra appartenere a quella rara categoria di uomini che non appartengono a nessuna categoria, la cui intelligenza prende le mosse, sempre e solo, dalla più limpida onestà intellettuale e dalla più alta fedeltà a sé stesso.
Il documentario di Nelson, in anteprima italiana al Festivaletteratura di Mantova, ripercorre la vita di Ellison a tutto spettro, quasi sempre proprio dal suo punto di vista, quello stesso punto di vista, tagliente e ironico, che sempre ha caratterizzato questo piccolo (solo di statura) ebreo ateo di Cleveland. Questo è il suo pregio.
Dagli anni '40, quando, piccola canaglia rompicoglioni, si faceva pestare fuori da scuola dai bulli del quartiere, attraverso gli anni della maturità e della scrittura (quasi mezzo secolo dagli inizi newyorchesi ad oggi), quando di tutte quelle botte si vendicava, assegnando ai "cattivi", in ognuno dei suoi sogni su carta da cento battute al minuto, proprio quei nomi, quasi come se con ognuno dei suoi personaggi avesse un conto aperto, una faccenda personale.
E intanto che la sua faccia si alterna sullo schermo, intercalata da quelle di alcuni di coloro che in tutti questi anni lo hanno conosciuto (compreso un Robin Williams che, abbandonati i panni di peter pan, assomiglia finalmenente a se stesso) qualcuno in sala ride a crepapelle.
Purtroppo (o forse per fortuna) Ellison, condannato sullo schermo a ripetere il copione, non ha il tempo di scendere in sala, tra il pubblico, per ricordare a questi incauti spettatori dalle risate farisee quanto sia scomodo avere la mano potente di un piccola canaglia di 74 anni serrata sulla gola, e quanto faccia male (o bene ogni tanto) sentirsi ricordare l'esatte dimensioni della propria piccola idiozia.



13 agosto 2008

Note sul ruolo politico dell'Arte

(pubblicato sul numero 9 di El Aleph - ottobre 2008)

“L'arte, la letteratura, la poesia, sono una scienza
proprio come la chimica è una scienza.
Il loro campo è l'uomo, l'umanità, l'individuo.”
Ezra Pound, 1913

Chiedersi quale sia oggi il ruolo politico dell'arte è trovarsi di fronte ad una serie di problematiche che mettono in discussione non solo lo stesso significato di Arte, ma anche il significato dell'intera nostra società, la società dello spettaccolo.
Quale sia la definizione odierna di Arte è la prima di queste problematiche.
Quella che noi chiamiamo Arte (e intendo l'arte moderna e postmoderna, l'arte all'epoca della sua riproducibilità tecnica, figlia della deflagrazione estetica primonovecentesca, nipotina di Charles Baudelaire) è una categoria i cui confini si sono allargati fino a sparire; per questo la definizione di atto artistico si fa di giorno in giorno meno netta, più vacillante, arrivando a confondere spesso arte e non-arte.
La definizione di Arte a cui cercherò di attenermi è la seguente:
L'arte è un atto comunicativo biunivoco che mette in relazione due soggetti, uno individuale, l'artista, e uno collettivo, il pubblico e il cui universo è la finzione. Questo atto comunicativo prevede, per esistere, da una parte, l'esistenza di un autore mosso da una volontà, pressupposta libera e intenzionale, di creare un oggetto la cui importanza a livello della forma sia almeno pari, se non maggiore, a quella del contenuto; dall'altra l'esistenza di un pubblico, eterogeneo nel tempo e nello spazio, il cui libero arbitrio, vale a dire la libertà di percepire l'oggetto come un oggetto artistico o meno, non sia in alcun modo compromesso. Il baricentro significante di questo atto comunicativo, è un messaggio che si attiva solo all'avvenuta convergenza delle due direzioni soggettive. Questo messaggio è l'opera d'arte.
Tra le righe di questa definizione credo di intravedere alcuni punti fermi dalle conseguenze decisive per questo discorso.
Il primo è che la natura libera di entrambi i gesti prevede la natura libera del loro risultato. Al momento dell'attivazione del messaggio, cioè alla convergenza dei due soggetti verso l'oggetto, sia il gesto dell'autore che quello del pubblico sono permeati di libertà, rispettivamente di pensiero e di giudizio. Da questo deriva necessariamente lo stretto legame che l'arte ha, che deve avere, con la verità, la verità soggettiva intendo, in qualche modo quindi, con l'onestà.
Vale a dire che l'Arte, così come il suo contenuto, deve essere libera e indipendente, ma ciò non implica assolutamente che l'arte non possa avere una componente politica, tutt'altro, è a lei per prima, proprio in quanto massima espressione della libertà individuale, che spetta la funzione sociale della critica, critica dell'uomo, della società e del potere.
Ezra Pound in un suo articolo del 1914, forse portando avanti una tesi simile, arriva ad affermare che l'arte inaccurata, l'arte disonesta, è immorale perchè dipinge gli uomini per quello che non sono. Per il momento vorrei che il mio discorso si fermasse un po' prima, senza coinvolgere le categorie delicate della morale, dalle quali fortunatamente l'arte moderna si è liberata.
Il secondo punto fermo è più sottile (sempre che io non confonda la sottigliezza con la soggettività) ed è legato proprio all'essenziale onestà del messaggio artistico. Esso prevede che l'arte sia in qualche modo un gesto inutile, e quando dico inutile non intendo superfluo o contingente, intendo gratuito, disinteressato, come lo può essere l'amicizia o l'amore, vale dire non legato all'utile, non dipendente da una finalità pratica.
Un'altra considerazione: il primo attributo dell'arte, di qualsiasi tipo di arte, è la finzione, è proprio per questo motivo che l'arte, in fondo e in un modo molto particolare, è verità. Questa mia certezza trae la sua origine e la sua forza da tre fatti: il primo è sicuramente la mia eccessiva frequentazione di Borges, il secondo è un passo della Republica di Platone, in cui il greco afferma che il mito (ma io leggo: l'arte) è, nello stesso tempo sostanzialmente, falso, in quanto composta dalla fantasia, ma anche essenzialmente vera, perchè basata su modelli della realtà e degli uomini la cui verità, se l'Arte è veramente Arte, è indiscutibile. Il terzo è un frase di Franz Kafka che ho letto qualche tempo fa, citata in qualche libro che non ricordo: “La verità è indivisibile, perciò non può riconoscere se stessa; chi vuole riconoscerla deve essere menzogna.”.
La conseguenza di tutto ciò è che l'arte è un'espressione la cui verità si pone al di là della verità, il cui mondo è al di là del mondo.
La stessa idea di superamento, questa volta applicata alla matematica, appare a 7 anni dalla morte del ceco, ad opera di un altro cecoslovacco, Kurt Godel, che nel 1931, attraverso l'enunciazione dei suoi teoremi dell'incompletezza, prima sospettò e poi verificò l'impossibilità per un linguaggio di definire sé stesso.
La verità per spiegarsi ha bisogno di uscire da sé stessa e farsi finzione.
Le conseguenze di tutto ciò sul ruolo politico che l'arte può assumere sono molto interessanti.
La prima conseguenza riguarda l'essenza stessa dell'arte quando viene a contatto con la politica: è sufficiente infatti che uno qualsiasi dei componenti della comunicazione perda la sua libertà e la sua gratuità, per fare sì che l'intero atto comunicativo non sia più definibile Arte, ma che sia piuttosto un'altra cosa. Non mancano gli esempi storici di ciò che sto dicendo.
Prima di diffondersi in tutti i paesi allineati al comunismo sovietico, in Russia, dagli anni trenta del secolo scorso, si diffuse una modo di fare letteratura, un modo cioè di comunicare un interpretazione del mondo, che non era più dettato dalle scelte estetiche dei singoli scrittori, bensì era loro imposto dal Partito, vale a dire dal potere. Questa tendenza letteraria, che alcune storie della letteratura registrano sotto la voce Realismo Socialista, proprio per l'ingerenza decisiva del potere (badate bene, sia essa esplicita, la censura, sia essa implicita, l'autocensura), perde ogni valore artistico: non è più libera, non è più indipendente, non è più disinteressata. Più che arte è propaganda.
In un modo che sospetto simile, in questo momento, nel nostro decadente mondo occidentale, al culmine di un processo di banalizzazione iniziato a metà del secolo scorso, il mercato culturale, grazie ad una fruttifera collaborazione tra la grande editoria, l'industria pubblicitaria e il mondo dell'informazione, è dominato da una tendenza letteraria che i critici registrano sotto il nome di letteratura d'intrattenimento, il cui fine è distrarre (dal latino “deviare”) le coscienze semplificando la realtà. In questo caso è messa in discussione sia la libertà degli autori, che hanno perso il proprio sguardo indipendente a causa del grande condizionamento (qualcuno direbbe schiavitù) esercitato dai grandi guadagni che il mercato offre loro, sia quella del pubblico, ormai divenuto massificato, senza più autonomia critica di giudizio, persa ormai nei meandri burocratici di un'istruzione a punti e nel terribile labirinto televisivo.
Mi sembra chiaro che in questo caso, l'ingerenza del potere (politico, sociale e culturale), edulcorando e stravolgendo la comunicazione tra l'artista e il pubblico, rende questo tipo di letteratura, questo particolare atto comunicativo, sia nel momento della produzione che nel momento della ricezione, non libero, non disinteressato, quindi non più definibile come arte, ma piuttosto come mistificazione della realtà, come inganno.
Questi sono alcuni esempi di pseudoarte che ha il solo fine di veicolare un messaggio politico attraverso la grande potenza comunicativa dell'arte. In questi casi quindi se forse si può parlare di ruolo politico della comunicazione, di sicuro non si può più parlare di arte.
È su un altro versante che l'arte, quella vera intendo, può e deve avere un ruolo politico, anzi necessariamente lo ha. Se l'arte vera è arte onesta, se è sincera analisi della realtà in tutte le sue forme, finanche alla realtà dell'immaginazione, allora essa ha sempre un ruolo politico perchè contiene un punto di vista indipendente sul mondo, direi una sana e autarchica ideologia, se solo la parola ideologia non fosse stata svuotata e stuprata da troppe generazioni di burocrati.
Ma quali sono gli esempi di questo tipo di arte? Qualche esempio? Alcuni romanzi di Stevenson, di Celine, di Kafka, alcuni saggi di Borges, di Pasolini, di Ezra Pound, alcuni film di Kubrik, di Leone, alcune installazioni di Cattelan, alcune foto di Cartier-Bresson, alcune canzoni di De André, alcune altre dei Radiohead.
Il ruolo politico dell'arte, dunque, sta proprio nell'essere arte, arte disinteressata, arte onesta, l'arte il cui campo è l'uomo, l'umanità e l'individuo.

23 maggio 2008

...

se fossi al passo coi tempi
direi che l'inquietudine che mi opprime
è il colpo di stato del mio avatar
distrutto dalla noia,
ma visto che non lo sono
mi posso ancora permettere
di tenere l'inquietudine in un angolo
e aspettare

14 maggio 2008

Una vita da uno sguardo

è tanto che mi sono abituato
all'invariabile certezza di capire
una vita da uno sguardo
- sguardi rubati nelle metro, alle
fermate degli autobus, nelle strade
rumorose, incrociati e già perduti,
sguardi dolci come donne o amari
come vecchi rimorsi -
Ma mai che mi sia avvicinato,
in tutti questi anni,
a capire il tuo.

...

se il nostro scenario
fosse un deserto giallo puntigliato
di cactus verdi e canyon marroni,
io di certo sarei willy il coyote,
eternamente sospeso sull'abisso,
in attesa di un'impronta,
nera e a forma di coyote
nella sabbia gialla del deserto...

9 maggio 2008

Exitpoll

la valigia è pronta da due ore,
e da due ore la fisso.
non filtra luce dalle tapparelle abbassate,
è una lampadina che illumina
la mia faccia sullo specchio.
è da tanto che ho deciso di partire,
ma è solo due ore che l'ho scoperto.

5 maggio 2008

Traduzione da Charles Baudelaire

CIX. La Distruzione in "Les Fleurs du mal"


Senza sosta s'agita alle mie costole il demonio;
nuota intorno a me come aria impalpabile;
lo inghiotto e lo sento che mi brucia nei polmoni
e che li riempie di una voglia inestinguibile, colpevole.

Conoscendo il mio amore per l'arte, a volte assume
le forme della più seducente delle donne,
e, con inutili pretesti da ipocrita
abitua il mio gusto agli intrugli più infami.

E così mi allontana dagli occhi di Dio,
ansante, stravolto di fatica, nel bel mezzo
delle pianure profonde, deserte, della Noia,

E così getta nei miei occhi in confusione
vestiti logori, ferite aperte
e l'arsenale sanguinante della Distruzione.


30 aprile 2008

A Charles Baudelaire

Albatros dalle ali di bitume
che sorvoli le città
e le paludi da prima ch'io nascessi,
ascoltami, arresta il tuo cammino
anche solo per un attimo, siediti,
beviti un bicchiere.
Le anime degli amanti sanno bene
come ingannare il tempo
lasciali continuare ancora un po',
lasciali godere di quest'attimo
d'insospettato paradiso.

27 aprile 2008

L'errore

L'errore
che mi perseguita e mi strazia
è l'averti creduta irraggiungibile,
l'averti contemplata
come i pazzi guardano la luna,
l'essermi saziato
di schegge dei tuoi sguardi
proprio quando la tua ombra era vicina.

29 marzo 2008

Connerie

Oggi ho perso una parola,
la chiave di volta di un verso.
Forse mi è caduta dalla tasca,
forse l'ho scordata in qualche bar,
al peggio me l'ha rubata con astuzia
un dio del furto.

11 febbraio 2008

...

Sei passata nella mia vita in fretta,
ma mi hai lasciato ben incisa sul braccio
una traccia di pastello rosso sangue.

(Sono anni che in doccia ogni mattina
provo inutilmente a cancellarla
a furia di liscivia e di sudore.
Sono anni che indosso camicie
allacciate ai polsi anche d'estate)

Ora, i casi sono due:
o mi vendono ogni volta liscivia difettosa
e ogni mattina mi scortico invano,
o il pastello pastello non era ma sciabola
e quella traccia rosso sangue cicatrice.

Nel primo caso il gonzo sono io
nel secondo anche, perchè è da gonzi
confondere le tigri coi cerbiatti.

21 gennaio 2008

In biblioteca, ogni volta che ti sogno

Leggo di soppiatto le righe che tu studi
come fossero notizie sui giornali del mattino
e non so più se ci separano i chilometri
o più semplicemente una piccola scritta,
un astuccio, un pennarello, una gomma
sparsi sul tavolo della biblioteca.
I minuti che colano sono muri
che ci separano dal mondo, al loro ritmo
ti fai in pezzi, in piccoli coriandoli.
Se mi abbasso, tento di raccoglierli
e ricomporli in un'immagine,
uno spiffero di vento li rimescola…